sabato 31 dicembre 2011

indovinello numero uno

buon vino a cattivo fuoco





                 

sentitissimi auguri, a lei e signora



al tavolo del tempo. un anno, un altro 
come a ping pong, sbirciamo attraverso la rete
augurandoci che il colpo - spumante 
botti, applausi - abbia buon esito. 
in quel bacio sacrale stempererò la superstizione 
ma il vuoto che l’ha contenuto 
è tutto a buon rendere. 

venerdì 23 dicembre 2011

Loading - episodio 10. L'ultima sedia

Così quello è il capitano. È come dovrebbero essere tutti i capitani, dotato di barba, maglia a collo alto di lana grossa, naso lungo e sottile, occhi che comprendono ancor prima di aver visto. Ma io non devo essere - volutamente - entrato nel suo orizzonte. Ho fatto un bel tonfo entrando, eppure nessuno si è girato. Stanno a un tavolo, parlano, bevono, due o tre stanno anche mangiando qualcosa, lo capisco dal rumore di posate a tratti molto operose. La prima cosa che vedo sono i bicchieri, di latta lucente. Sopra il tavolo un lampadario da cucina spartana, con il piatto anch’esso di latta, che oscilla leggermente mescolando la luce cremosa emanata dalla grossa lampada appesa sotto. Mi viene appetito, mi avvicino, cerco di richiamare la loro attenzione. In un angolo c’è il marinaio che mi ha accolto, ma adesso è tutto avvolto in una vecchia coperta, allungato su una sedia con gli occhi chiusi. È questo il suo sonno abituale, si vede. Non ci sono brande?, mi chiedo. L’atmosfera nel complesso è allegra ma avvicinandomi percepisco delle parole che suscitano qualche tensione, si parla forse di un errore nella rotta, di un guasto alla strumentazione, di un problema tecnico. I sorrisi che vedevo appena entrato, da vicino sono più delle smorfie di inquietudine. Il capitano ha alzato un momento gli occhi su di me. Gli è bastato uno sguardo dalla cintola in su per capire che razza d’uomo sono. Non devo averlo interessato, perché ha ripreso immediatamente i suoi discorsi senza neppure bisogno di pensare a dov’era arrivato. Gli altri lo hanno imitato e fanno come se non ci fossi. Io ne approfitto per curiosare tra gli avanzi dei loro piatti con l’impertinenza di un randagio. 
La sala in cui mi trovo assomiglia a un salone. Qui gli uomini mangiano, passano gran parte della giornata e, a quanto pare, anche della notte. C’è un odore di carta bruciata che copre quasi del tutto il salmastro. In una specie di credenza sono affastellati centinaia di documenti. Da come sono disposti si direbbe siano caduti forse più di una volta, e che qualcuno li abbia sistemati alla rinfusa, come una valigia dell’ultimo momento. Nel piccolo tavolo di fronte a quello grande sono poggiati alcuni strumenti. All’improvviso, mentre credo di essere ormai svanito nel nulla, sento una voce netta e pungente che si rivolge chiaramente a me e mi aggancia come un grosso amo metallico: - Non li tocchi -. Non c’è alcuna tensione, ma il capitano vuole essere certo che quell’eventualità, che forse qualche mio gesto aveva ventilato, non si verifichi in nessun caso.
- No, certo - dico senza avere il tempo di prepararmi per quella mia prima emissione di voce in pubblico. Riavvolgo i miei passi e mi allontano cautamente da ogni tavolo. Ora cerco una sedia, e stranamente non ne trovo a disposizione. Ce n’è solo una libera, ma si trova a due posti alla sinistra del capitano. Dopo qualche incertezza quella sedia diventa la massima cosa cui abbia mai ambito. La vista della sua seduta lucente, concava, accogliente, è ormai un richiamo. Comincio a immaginare tutti i possibili percorsi che mi potrebbero portare ad essa. Fantastico sulla sensazione che proverei a starci seduto. Non vorrei in nessun caso distrarre il capitano, o infastidirlo, o nuocere in un modo qualsiasi alla sua conversazione, ma temo ogni momento di più che l’unico modo per raggiungere quella sedia sia passargli davanti.

Loading - episodio 9. Discesa

Non provo sonno, anche se dovrei ragionevolmente provarlo. Ma forse è stata l’emozione, è l’adrenalina che ancora non smaltisco, fino a un momento fa ero in balìa del mare e del suo nero, adesso tutto è cambiato, è ricominciato. Non me ne sono reso conto, si sa in casi come questi come funziona, tra un minuto avrò il crollo. Ma la verità è che è come se non fosse successo niente, e come se non aspettassi niente. Non sono veramente scosso, si direbbe che non sia passata attraverso il mio corpo nessuna emozione: ho compiuto dei gesti, prevedibili, e poi, trovata questa ringhiera mi ci sono avvinghiato come farebbe un animale cui si è guastato qualche meccanismo istintivo e non sa più niente del branco, degli istinti, della tana. Non sono neppure annoiato. Sono molti minuti che dico di andare sotto coperta. Ma perché dovrei? La vocina è sempre più flebile, convince sempre meno, evapora quasi tutta prima di arrivare alle mie orecchie. Intanto però mollo la presa, e ritiro le mani facendo una certa fatica. I palmi sono piagati, non sento nulla però, sono le mani bianchicce e segnate da lunghe fessure infiammate di un altro, di qualcuno che non mi interessa neppure conoscere. Potrebbero essere di un manichino. Se non avessi visto quei segni ripugnanti, che sottolineano come pieghe di un tessuto bruciato le basi delle dita, se non le avessi viste per caso, con la parte bianca dell’occhio, non avrei saputo in che condizione si trovano le mie mani. Ho bisogno di luce, adesso, devo controllare. 
Così decido di andare sottocoperta. Ho cercato una via diversa dalla pertica, una scala che pure deve esserci, almeno per risalire, ma non l’ho trovata. Nel brevissimo giro di perlustrazione sul ponte ho trovato una porta, forse blu o verde, con una chiusura stagna da sommergibile. Deve essere quello l’accesso alla scaletta, non ho dubbi, ma non mi sono azzardato a toccare. Intanto però i miei piedi hanno compiuto quasi i passi di un gradino, poi di un altro, così, da fermo. Ho visto un cartello sopra la porta, privo di parole ma il disegno stilizzato è molto eloquente: due fauci di uno squalo che emergono spalancate sopra due onde parallele, e un omino che ci precipita dentro, proprio in bocca al pesce affamato. All’inizio mi è sembrato qualcosa di spiritoso e ho sentito gli angoli della bocca arricciarsi istintivamente. Poi mi è venuto un dubbio e ho guardato in direzione dell’unica luce che si vede, che è stata dietro la mia testa per tutto questo tempo, e che ora mi passa da un lato all’altro della fronte a seconda di come mi muovo, una cabina a prua con le pareti in vetro cui si può accedere solo dall’interno e che emana un bagliore desolato. Se c’è qualcuno che guida la nave è immobile, seduto da ore. Mi sarei accorto anche della più piccola ombra, del minimo movimento. Il rumore dell’acqua che attraversiamo senza fretta assomiglia al fruscio di una seta pesante, uno strascico che qualcuno dietro di noi continua a tirare. Noi: io e il vecchio? E basta? Magari c’è un sistema automatico. Mi trovo già sulla pertica, avvinghiato come una scimmia inesperta di questo genere di alberi. Basterà allentare un poco la presa e sbucherò anch’io di sotto.

domenica 18 dicembre 2011

Loading - episodio 8. Quella strana sensazione

Sono ore che navighiamo, ma l’orizzonte è ancora lì, immobile. È come se qualcosa non funzionasse in quello che vedo. La nave si muove, di questo ne sono certo. Mi sporgo per vedere meglio la poca schiuma lungo i bordi. Mi è impossibile da dove mi trovo andare fino a poppa, ma vedo comunque, alla poca luce che c’è, il biancore spettrale di una porzione della scia. Per un attimo, un solo attimo, penso che se andassimo alla stessa velocità della rotazione terrestre quello che appare ai miei sensi sarebbe possibile. Sarebbe come inseguire un’alba che non arriva, ma poi no, poi capisco che ho fatto i male i conti. Non puoi inseguire un’alba, puoi solo tenerla faticosamente alle tue spalle, come un branco di lupi affamati. È invece tecnicamente possibile inseguire un tramonto, ma comunque i conti non tornerebbero. Ci vorrebbe un jet, non una sorniona imbarcazione che andrà a dieci, quindici nodi al massimo. E poi ricordo perfettamente che era notte, prima, nella roulotte, e il tramonto è per definizione l’inizio della notte, non la sua conclusione. Mentre ricompongo queste considerazioni frammentarie, cercando di ottenere dall’insieme anche un solo dettaglio con cui possa sostenere decentemente una ipotesi, e che mi suggerisca il prossimo gesto, e anzitutto se c’è un gesto qualunque da fare, mi sento trascinato verso l’alto. Un cavo ha portato i miei occhi e la mia testa dove cominciano tutti i cavi, dove le carrucole cigolano e concedono gli spostamenti. Vedo ogni cosa come se fosse in miniatura. La nave è una riproduzione giocattolo, io un omino dai movimenti limitati, solo quelli previsti da articolazioni semplici, il mare una vasca allestita da giocatori fanatici che assistono divertiti alla scena. Ogni singola porzione di questo modello ha non più di due gradi di libertà. C’è un bordo, poco lontano da dove mi trovo, e forse loro sono affacciati a quel bordo, così come io a questa ringhiera sudicia per il salmastro, ma non posso vederli per via del buio. L’idea che a un certo punto, guardando fisso il nero sopra l’orizzonte appena percepibile, ci siano delle sagome, delle teste, dei profili umani giganteschi, mi riempie di angoscia. Sono loro che azionano le pompe che muovono l’acqua e danno l’illusione che sia il rimorchiatore a muoversi. No, non è vero neanche questo. Mi dovrebbe riempire d’angoscia, ma non succede. È la stanchezza la colpa di tutto, anche di questa distanza dalle mie abituali sensazioni. Ho scatole vuote disseminate lungo il corpo e la mente. Scatole che in una condizione del genere si riempirebbero normalmente di angoscia, freddo, paura, inquietudine, rabbia. Ma ora sono troppo stanco, e queste scatoline non riescono a riempirsi, e io mi meraviglio che rimangano vuote. Si negano con le loro esili palpebre di cartone. Sono evidentemente esausto e pochi minuti passati sul ponte mi sono sembrati ore. Devo decidermi ad andare sotto coperta, anche se non sento freddo. Sono stanco anche se le gambe non mi si piegano affatto. Mi devono offrire almeno un caffè e delle ragionevoli spiegazioni. 

sabato 17 dicembre 2011

venerdì 16 dicembre 2011

Loading - episodio 7. L'attesa dell'alba

Sono stato accolto con indifferenza. Salito a bordo mi sembrava di aver messo piede sulla terraferma, una terraferma di robusto metallo che risuonava a ogni mio passo. Il tizio che mi ha porto la scaletta non ha detto una parola, ha sorriso appena, e nel farlo ha cancellato per un attimo la sua età. Poi è sparito, forse perché voleva che mi godessi da solo, avvinghiato alla ringhiera oleosa di questa specie di rimorchiatore, la visione della sagoma della roulotte che si allontanava. Quella specie di creatura galleggiante mi era appartenuta, e io cercando di ricostruirla nel buio quasi totale - soprattutto adesso che i fari erano stati indirizzati altrove - mi chiedevo se ci avessi lasciato qualcosa di importante. 
Non mi aspettavo certo delegazioni o onori particolari, ma nessuno sembra essersi accorto di me. Il vecchio marinaio è tornato nella pancia della nave, l’ho visto calarsi per una specie di pertica in metallo e ho sentito distintamente il tonfo anch’esso metallico del suo atterraggio. Come fosse un ragazzino. L’imbarcazione è piuttosto grande, ci saranno almeno una ventina di uomini d’equipaggio a bordo. Ho la sensazione paradossale di trovarmi a una festa, ma come un perfetto estraneo che aspetta in giardino. All’interno di una villa della gente che si conosce da tempo si sta divertendo, e io non so se entrare o meno. Così resto ancora sulla balaustra, proteggendomi con la coperta che mi è stata offerta, e che indosso come una specie di saio. 
Appena mi rendo conto di questo, di quanta forza metto per stringere la coperta di lana scadente e infeltrita all’inverosimile, mi accorgo anche di un’altra cosa, e cioè del fatto che non provo freddo. Nella roulotte, a un certo punto, stavo quasi gelando. Ma forse era la paura. Qui, benché mi trovi piuttosto in alto, e senta il vento del mare che mi schiaffeggia quasi, non ho freddo. Perché dovrei fingere di aver freddo, allora? Lascio che la coperta mi cada alle spalle, fregandomene del fatto che possa rovinarsi. Cosa mi importa? Che ospiti del cazzo! Non uno che mi sia venuto ad accogliere. Mannò, non mi interessa neppure questo. Perché fingo di arrabbiarmi? Non sono affatto adirato, e non trovo neanche tanto scandaloso il fatto che mi stiano ignorando. Saranno intenti a far andare avanti la nave. È notte piena, alcuni di loro dormiranno profondamente, cullati dalla regolare andatura della nave che ha ripreso il suo viaggio dopo la sosta per salvarmi. Dove stanno andando? A est - ma lo deduco soltanto dopo - c’è una sottilissima, quasi impercettibile linea più chiara, e quella sembra la direzione. Il mattino è vicino. Con questa stagione forse sono le quattro, più o meno. Visto che non provo alcuna sensazione sgradevole, neppure stanchezza, resterò qui, immobile, almeno finché non sarà sorto del tutto.

giovedì 15 dicembre 2011

La macchina subliminale

Ieri ho visto la Freemont, per la prima volta me la sono vista bene. Era un’auto istituzionale, con lo scudetto di fianco alla targa. Corpulenta, massiccia, sgraziata come solo gli americani sanno fare. Tipo la Dodge Nitro, la Hammer, cioè tutta fuffa, scatolame, ma molto molto peggio, perché neppure arrogante e pretenziosa. Solo vuota. Volendo sembra una Stilo agli estrogeni. Oh quanto fastidio mi dà vedere una creatura tanto spigolosa e tanto poco italiana con il marchio Fiat (di cui peraltro non è che sia particolarmente orgoglioso). I designer italiani? Viene dalla Dodge Journey, assomiglia a un elefante carbonizzato ed è vecchissima. Ha le luci a led, dietro, come si porta adesso, ma ci hanno disegnato appena appena due cerchietti. Almeno in Alfa si sono inventati quella specie di citazione da capitello ionico. Poi capisco che è un messaggio subliminale, che Marchionne sapeva tutto: Freemont. Free Mont(i). Poi dice i poteri forti.

martedì 13 dicembre 2011

Com'è umano lei...

In questo periodo una delle mie trasmissioni preferite (se non altro perché allieta il mio promenage paminesco) è Pagina 3, in onda alle 9 sull’omologa radio. In questo momento ci allieta Nicola Lagioia, noterrimo scrittore di non poco interesse. Ma è l’altro versante della staffetta a conturbarmi: Edoardo Camurri, per me bella scoperta. Non guardando televisione ignoravo che fosse il conduttore di Mi manda rai tre, regno marrazzesco fino a qualche tempo fa. E prima prima Antonio Lubrano, una specie di Pomicino dalla parte della gente. Bene, di Camurri, di cui ora so molte cose grazie a qui, mi piace il tono, il genere di conduzione, le citazioni, e soprattutto mi mandano in sollucchero le sue imitazioni fantozziane. Sottolineature per notizie che qualcosa del ragionier Ugo effettivamente contengono. Mi chiedo quanti dei dai-25-in-giù sappiano chi è Fantozzi, se non vagamente e per raffazzonata imitazione. Quando Edoardo, raffinato intellettuale che non perde occasione per puntellare con il fiore dei suoi studi filosofici gli articoli spesso ben poco dotti che si trova a commentare, quando egli libera la sua vena fantozziana, io letteralmente gioisco. Dapprima ero diffidente e levavo il sopracciglio, perché consideravo Fantozzi un patrimonio affettivo e intimo, da trattare con cura e condividere con pochi eletti. E poi lo trovavo fuori luogo per Pagina 3. Poi, però, piano piano, ho apprezzato. Non solo perché è un vezzo simpatico, ma anche perché ha l'effetto di far sembrare tutto molto molto più umano. Dissacrando e relativizzando. Il solo rischio che vedo è che, per chi quei meravigliosi classici del pensiero nihil-chic non li abbia mai visti, quella voce stentata, goffa, ansimante, che senza pudori parla di lupman e granfarabutt, che sottolinea con humour gelido come i muri in cemento di un megaufficio le tragiche vicende della vita, diventi, tout court, camurresca.

lunedì 12 dicembre 2011

Loading - episodio 6. Lasciare andare, lasciarsi andare

Peggio per lui. La distanza siderale da quello che ero mi fa quasi ridere. Sotto le dita che rovistano senza l’ausilio degli occhi sento quasi subito quello che mi serve. Devo acciuffarlo, prima. Tramutarmi in gatto. Ero quasi vegano, non mangiavo carne terrestre: pescetariano per la precisione. E ora, invece. Ma se non ho neppure fame, perché dovrei? Perché è un intruso, anzitutto, di topi in gabbia uno è più che sufficiente. Trema, poverino, trema tutto. E poi io ho bisogno di proteine. Coi chiodi arrugginiti gli pianterò quelle stupide zampette e sarà il cristo della sua specie. Mi dovrebbe ringraziare. Mentre l’animella che ancora gli fluttua vicino la coda esalerà io ingoierò il suo corpo, pezzo a pezzo, senza neppure scuoiarlo. Mi illumino quando concepisco come procedere. Voglio che abbia le mie stesse cicatrici, che riporti anche lui sulla pancia un ferro di cavallo rovesciato. Che si dimeni, che si dimeni pure. Eccolo, è in un angolo. Ho sfasciato mezza roulotte per costringerlo dove è adesso. Se avesse delle spalle sarebbe spalle al muro. Ma tu, topolino, non ce le hai le spalle! Hai una schiena pelosa e sudicia, che tra un poco mi solleticherà le gengive. Ormai è questione di momenti, devo solo calarmi sul suo corpicino fremente, schiacciarlo nel palmo e succhiarlo ancora caldo, come fosse un uovo. Ma il farabutto è ancora veloce, ha ancora presenza di spirito. Salta, sguscia, non so come abbia fatto ma è già altrove, a sinistra, dietro. È un gioco, un divertentissimo gioco, divellere una delle mille antine di questa merda di casa galleggiante e lasciarmi andare, sentire le braccia che mi fanno male e diventano il cuore pulsante del mio vigore. Colpisco, alla cieca, senza neppure curarmi se il ridicolo mammifero è sotto i miei colpi o no, frantumo, produco un boato continuo che mi investe benefico e privo di qualunque ipocrisia. Sto generando il caos e non riesco a fermarmi. Ma ucciderlo così… Provo a rallentare, a togliere linfa al gusto, comincio a ripetermi, come posso, una parola alla volta, che è barbaro e inutile, che se proseguo procurerò delle falle alla lamiera, finiremo giù entrambi. 
Un’onda colossale ha appena investito il guscio, che è salito come sulle montagne russe. Io ho sbattuto la testa, ho lasciato andare la mia arma. Poi ancora due, tre onde ma meno elevate. So cosa significa. Riesco a rimettermi in piedi, anche se sono tutto dolorante. Il pensiero che scandisco è: Voglio godermela tutta, non voglio restare per terra. Nel giro di qualche secondo una luce azzurrina entra nel mio loculo, forte e indiscreta, sciogliendo le sagome e i colori che avevo percepito finora, e che mi ero rassegnato a considerare il mio ultimo carnevale. Il topo ne ha approfittato per svignarsela. Sono immobile, rigido sulle gambe come se sotto i piedi ci fosse un enorme surf, e da me dipendesse il mio stesso galleggiamento. L’onda si è smorzata, ma cominciano delle piccole vibrazioni continue. Anche questo so che cosa significa. La luce va e viene, come l’occhio di bue su una comparsa, mentre questa specie di barcone si mette a oscillare, a beccheggiare, a rollare. Finalmente il segnale che aspettavo: una lunga, profonda sirena di nave, come il sospiro di una gigantesca balenottera inquieta. Mi decido a lasciare la mia posizione e sporgermi verso uno dei due oblò, graffiati tanto da essere diventati opalescenti. Ormai ne sono certo, spetta a me alzare un braccio, fare un segno qualsiasi. 

domenica 11 dicembre 2011

Brevissime considerazioni sul Mutolismo

Benché la definizione di Mutolismo suoni a primo acchito piuttosto infelice - a me ha fatto pensare a una sorta di menomazione, ma è un problema ricorrente quando si cerca di tradurre in maniera tanto letterale i nomi di correnti straniere battezzate in lingue non neolatine - devo riconoscere che il valore intrinseco di queste opere è notevole. Non può essere un caso che le recenti mostre tenutesi a Den Haag, a Gliwice in Polonia, e persino in una sala del prestigiosissimo Hamburger Bahnhof abbiano riscosso tanto successo, come si dice in questi casi unanime di pubblico e di critica. Io non sono certo un esperto e quindi eviterò di esibirmi in contorsioni sul valore di quanto sta suscitando tanto interesse. Devo limitarmi a quanto vedo e percepisco, e cercare di esprimerlo come posso. È anzitutto evidente che il Mutolismo  possiede qualche ragione d’esistere e il merito di farsi notare nella generale tendenza al redshift dell’arte contemporanea. A mio modesto avviso si tratta di tele agghiaccianti nella loro semplicità, superfici che già per lo specifico trattamento hanno una potenza espressiva e una capacità di rendere lo spettatore autenticamente partecipe che poche altre opere possono vantare. Sanno ricondurre con forza a un presente - pur nell’assoluto antirealismo, quasi sfacciato - che invece pare sfuggire da tutte le parti e non solo nel figurativismo e post-figurativismo. La forza con cui i vari Minewicz, Loeb e gli altri ci rivolgono la parola è da lasciare persino perplessi. In un momento in cui la realtà si sfascia palesemente, si disgrega abbandonando quelle strutture consolatorie - anche ideologiche - che l’avevano tenuta insieme come grinfie di un’arpia metallica -, in un decennio come questo in cui l’architettura è design in scala gigante, il quotidiano è disseminato di pod che si riproducono incrociandosi tra di essi e proponendosi simili in dimensioni diverse come nei peggiori incubi cyborgenetici, in un tempo come questo l’effrazione dell’antirealtà può essere una soluzione, uno squillo di tromba efficace. La necessità di una partecipazione che scaturisce da queste opere d’arte è talmente evidente da non richiedere chiose forbite o le solite motivazioni da psicologia percettiva. La si guarda e basta. Ed essa agisce, con un incantamento che a dire il vero quasi avevamo dimenticato. Ci si muove a partire da questo modo di fare arte, si compie necessariamente un passo. Credo che il nesso più forte l’abbia rilevato un mio allievo, un ragazzo di neppure diciassette anni, che con la freschezza tipica di chi sta ancora accrescendosi nell’entusiasmante avventura dell’educazione liceale - il prodigioso lievito finirà presto, ma lui ancora non lo sa -, ha così commentato: - C’è da restare muti. 
Frase evidente, banale, e persino paradossale. Ma dietro cui mi è parso di scorgere un triste presagio. Che futuro, che ricezione potrà esserci in un paese come il nostro in cui, oltre alla condizione asfittica del sistema cultura, la parola ai cittadini è stata già da tolta da tempo? Che stupore potrà suscitare da noi il Mutolismo, forse la corrente più innovatrice degli ultimi cinque lustri, quando l’annichilimento più assoluto è già entrato a far parte del nostro principale ordine di idee?

venerdì 9 dicembre 2011

Loading - episodio 5. Uomini, topi

Non mi ci vedo a morire così. Adesso che so come stanno le cose avverto la roulotte oscillare, come farebbe un qualunque barcone di lamiera. Non era il mio stomaco, né la testa a fare capricci. Per fortuna non c’è vento, sembra che tutto sia sospeso. Non ho visto stelle, ma non ho alcuna voglia di guardare di nuovo. L’unica lampadina, penzolante poco sopra il lavello, emette una luce da frigorifero, eppure riesco a trovarla di conforto. Non ho alcuna idea di dove si trovi la batteria e per quanto tempo durerà ancora. Penso solo che se ci spegneremo assieme non sarà tanto terribile. Avrei dovuto assecondarla. La barbie, avrei dovuto farmi sedurre, o sedurla io se era il caso, è così che si fa con gli scemi. Assecondarli e spremerli, e a quest’ora probabilmente mi troverei su un materasso ad acqua, con un sapore di plastica in bocca e un sorriso beota e incontrollabile che mi sale dalla radice del pene. È strano che non provi né fame né sete, né alcun altro stimolo. Da stamattina non ho toccato neppure un sorso d’acqua, però. Che mi abbiano manipolato qualcosa, a livello nervoso, magari come quelli che non hanno il senso dell’olfatto, o del tatto, e possono inalare un veleno per sbaglio o ustionarsi senza accorgersene in tempo. Potrebbero avermi reciso i nervi della fame. Il vago, per esempio, o qualcosa del genere. Sono seduto, la testa mi è scivolata tra le mani, e tengo il mio sguardo fisso sul punto in cui pavimento e parete si incontrano: questa roulotte è sudicia. Anch’io, del resto, lo sono. Emano un odore dolciastro, che a momenti cerco più morbosamente e inalo con un’unica narice. Mi sto convincendo che ci sia anche un fondo di disinfettante, o anestetico, non so, e che assomiglia a quegli ospiti pericolosi, che ogni tanto si è costretti a invitare. Uno di quelli che conosci poco, che esercitano uno strano fascino e potrebbero sfasciarti la casa da un momento all’altro o ucciderti il cane o peggio, violentare te e la tua donna. La cicatrice è grande quasi quanto un pugno, a ferro di cavallo rovesciato, come cioè non si dovrebbe mai mettere: mi hanno cucito addosso un segno della scalogna. Ho già provato a passarmici un dito, sopra, ma non ci sono riuscito. Adesso mi sento più invogliato a farlo. Morire senza essermi tolto almeno questo sfizio? Appena il polpastrello dell’indice destro sfiora l’inizio della cicatrice, che ora mi sembra grande come la cunetta smossa da un roditore, ritraggo istintivamente la pancia, spaventato. Un formicolio mi arriva fino ai talloni per protestare che non è il momento. Ma io aspetto, ho deciso di farlo e lo farò. È il mio corpo, ho ogni diritto. Più lentamente, con un’attenzione che mi sorprende e mi aliena dalla mia stessa mano, riesco a fare in modo che quella creatura sfregiata e oltraggiata che ha trovato riparo poco sotto il mio sterno si lasci avvicinare. La bestiola ha qualche piccolo sussulto, poco ci manca che squittisca. Mi faccio anch’io più coraggio, e dolcemente riprendo a sfiorarla, sentendo le irregolarità adesso come si trattasse di increspature, avvallamenti, strapiombi e io fossi un gigante pronto ad accudire e proteggere queste terre abitate da brava gente. Sento uno squittio per davvero. Mi volto: c’è un piccolo topo bianco dagli occhi rossastri che ha deciso proprio adesso di venire allo scoperto.    

mercoledì 7 dicembre 2011

Punch a colazione

Sabato mattina. Il rito della ricolazione viene celebrato in uno dei miei bar-panetteria-miniristorante preferiti. Per chi non lo sapesse la ricolazione è l’atto di rifare colazione al ritorno dal mio giro con Pamina, più o meno verso le undici (il giro del sabato e della domenica è più lungo e meno mattiniero del solito). La faccio mangiare, aspetto che Ale si faccia (più) bella, indi si va, affamati come un’armata Brancaleone (io e Pamina, intendo, anche se Ale neppure scherza…). Giungiamo in loco, ci sediamo, io ordino quelle due o tre cosette per accompagnare i due tre caffè, caffè macchiati, cappucci, ecc… Non fa freddo, è una mattinata limpida. Dopo pochissimo sopraggiunge una dama, sui settanta, curata assai, con cappello e giacca in lamè, di una sgargiante eleganza che fa tanto Olgiata o, per restare in zona, via D’Azeglio/via Farini. Bella donna d’un tempo, si ostina nonostante l’età ormai del tutto scaduta a non portare calze sotto le scarpe scollate, e mostrare di conseguenza le grosse vene sul collo del piede che tanto - per colore e consistenza - ricordano certe radici assetate. La prima cosa che fa è notare Pamina. Pamina è un cane molto socievole, dolcissimo per aspetto e indole, che non perde occasione per farsi sfruculiare da umani e non. La signora in lamè accarezza il cane, le rivolge un paio di frasi sdolcinate, quindi ci rivolge la parola per chiederci come si chiama. Il riferimento al Flauto magico (Pamina è la figlia della Regina della notte) non lo coglie, ma il nome le piace, le suona bene. Dopo qualche momento rivolge compiutamente la parola anche a noi, degnandoci di più e più sguardi, ma è irrequieta e ordina un punch. Non commenterò il fatto che non siamo a Canazei, che ci sono forse dieci gradi e che sono le undici di mattina: ognuno di fatto è libero di tracannarsi quello che crede quando e dove vuole. Il punch dunque. 
La ragazza del bar è un tipo piccolino, con la visiera calata sugli occhi, un tatuaggio che sembra il dettaglio di un dragone sul collo (fantastico che il corpo della bestiola si prolunghi per tutta la schiena) e un accento romano piuttosto marcato. Sarà una studentessa, ieri avrà fatto le quattro e non vuole che le si vedano le occhiaie. Serve tutti di fretta, con la minima gentilezza necessaria. Codesta cameriera prende l’ordine della scintillate signora, ma commette un errore gravissimo perché dopo un paio di minuti porta il punch in una tazza. Una tazza da cappuccino, più o meno. Terribile. Si scatena l’inferno. La vecia va su tutte le furie, s’indispettisce, fa commenti di ogni ordine e grado. Chiede con forza di aver portato il punch in un bicchiere adeguato, accenna persino a sbattere il palmo di una mano anch’essa ricoperta di radici sul tavolino. Sono momenti di fibrillazione, il mio mozzicone di cornetto all’albicocca si è arrestato tra le labbra, Ale fa finta di guardare una rivista ma si vede che non procede di una sillaba e alza il sopracciglio. La vecchia è su tutte le furie, ma ha deciso di dimostrarsi tollerante (tollerante, che parola horrenda!), e ha concesso un’altra chance alla cameriera. Intanto accarezza il mio cane e le fa tante di quelle moine - ma è perché sente l’odore del mio, i cani mi amano, io li amo tanto, sa?, mi riconoscono subito, e via blaterando - che io che la guardo mi sento schizofrenico. La ragazza torna con il punch versato in un bicchiere da rum, cosa che a me sembra un compromesso più che accettabile. Ma non per lei, che deve essere stato il cuore stesso del jet-set bolognese negli anni ‘60. Il tiranno in lamè si rizza in piedi, aggiusta il cappello sui tre quarti e chiede come farebbe un burattinaio malvagio di parlare con la signora Rosa. Non c’è, squittisce qualcuno, ma da molto dietro, forse dalle cucine. Rosa sarà la proprietaria del locale, probabilmente sua collega di bisboccia. Non c’è? Ah, bene, allora tornerò stasera. Perché qui, qui c’è da mettere tutti in riga. 
Menomale che ama tanto i cani…

lunedì 5 dicembre 2011

Loading - episodio 4. La preparazione del viaggio

Devo procurarmi tutto ciò che mi potrà essere utile. Dopo qualche minuto che passo ad aprire e chiudere i maleodoranti vani distribuiti diabolicamente in questo spazio claustrofobico mi rendo conto che sto solo perdendo tempo. Anzi continuo a ripetere l’inutile operazione con sempre maggiore violenza. A un certo punto metto una tale foga nel chiudere uno sportello che la baracca sembra venire giù, ed è come se addirittura l’avessi spostata. Sento un rumore dal fondo, come se qualcuno grattasse, un rumore che potrebbe terrorizzarmi. Non so da quanto dura, forse sto solo esagerando e montando ad arte la cosa, perché cerco una scusa per maledire e abbandonare questo posto. Qualcuno - non io, ne sono certo -, ha messo delle lenzuola umide, strizzate malamente e che puzzano di piscio proprio dentro il lavello. Lo avrà fatto mentre ero in spiaggia. Sono bianche con dei vistosi girasoli neri: forse una specie di messaggio intimidatorio che ancora non so interpretare, ma che quando realizzerò mi farà ammattire. Devo andarmene il prima possibile, riposerò altrove, quando e come potrò, perché qui è impossibile trovare la quiete necessaria. Come un gatto o piuttosto un barbone che ha passato le ultime ore a frugare tra i cassonetti, ho raggruppato il deludente bottino su un ripiano per l’inventario. C’è qualche vite, alcuni chiodi storti, un paio di bicchieri in vetro molto grossolano, una mezza dozzina di cucchiaini, un coltellino svizzero senza lame, dello scotch di carta quasi finito, una vecchia rivista enigmistica in una lingua che non conosco e infine del fil di ferro ricoperto, di quello che si usa per chiudere i sacchetti del congelatore. C’è anche una vecchia borsa, una specie di zaino con una cinghia sola che puzza di bitume ma con la cerniera ancora buona. Voglio portare con me anche l’unico cuscino: puzza di muffa e c’è una grossa macchia gialla su uno dei lati, ma dal momento che non ho idea di dove troverò da dormire non vorrei rimpiangerlo. Sono a pezzi, mi sento così debole che la testa mi gira. Dovrei stendermi ma ormai provo autentico schifo per quel materasso. Dovrei mangiare. Il mio stomaco sembra pieno di liquami.
Ma non c’è cibo né acqua qui dentro. Le gambe fremono, benché quasi si sciolgano per la fatica. Vorrei avere un piano, o almeno un’idea qualsiasi che abbia il coraggio di immaginare qualcosa fuori di qui, ma l’unica cosa che so è che se voglio continuare a vivere non ci sono altre uscite oltre quella porta da cui sono tornato - e questo ora mi sembra essere stato un errore gravissimo -, e che probabilmente quei due mentecatti stanno ancora lì, aspettando la mia prossima mossa, forse anche l’ultima. Dove saranno finiti? Magari si sono annoiati. La noia è il sentimento più diffuso, avrà contagiato anche loro. Sono umani, in fondo. È curioso come all’interno della roulotte non arrivi quasi nessun rumore. Mi accosto alla porta. Se faccio aderire l’orecchio alla lamiera gelida sento qualcosa di simile al muggito rauco delle conchiglie, un canto esoterico e indecifrabile, e probabilmente anche del tutto privo di senso. Mi faccio forza e mi decido a uscire, ripetendomi che non ho altra scelta. Ma per quanta forza ci metta la porta non va, neppure a spallate. Infuriato mi ricordo degli oblò. Mi affaccio, e quello che vedo - o meglio non vedo - è terrificante: è notte e sono in mare aperto, imprigionato in questa gelida tomba di lamiera che galleggia per non più di metà.

venerdì 2 dicembre 2011

Loading - episodio 3. Souvenir di casa

Non sono in vena di filosofia, o di insegnamenti di vita. Non m’importa se quello che dice può avere una parvenza di intelligenza o profondità. A me sembra una specie di scocciatore guardone, calvo e grasso e che probabilmente muore di invidia perché chissà da quanto tempo ha messo gli occhi addosso su quella mezza matta mezza nuda. A questo punto non ho alternative. Il mare non è mai stata una via d’uscita concreta. La spiaggia sembra non finire mai ed è letteralmente ricoperta da leoni marini dalle sembianze un po’ più umane. Il vecchio calvo comincia a leccarsi le labbra e la pazza sembra avere finito le pile: sta ferma, mi guarda, con le orbite rinsecchite. Ora che sono più vicino posso vederla meglio. La faccia è lievemente segnata da butterature, le palpebre sono enormemente gonfie, e quasi si ingoiano gli occhi. La frangetta nera è stata disegnata apposta per correggere le irregolarità del viso. La pelle, sulla fronte, le guance e il mento, è molto lucida, ci si potrebbe intingere qualcosa. Ho vie di fuga? Girando la testa da un lato all’altro sento il collo rigido e teso, ho dolori anche lì, mi hanno conciato proprio bene. La roulotte è ancora dove l’ho lasciata, con la porta sgangherata semichiusa. È bianca a fasce marroni, ci sono diversi punti di ruggine. Da fuori si vedono delle assurde tendine a quadretti, dello stesso colore della sabbia. Delle tende spensierate. Sono spuntati dei cespugli, intanto. E dietro, dietro questa specie di uovo di lamiera abbandonato, qualcuno ha tracciato un viottolo. Da quella parte c’è meno gente, e quella che c’è parla tra loro, tutta presa dalle conversazioni. Banchettano come antichi romani, distesi su un fianco sopra i loro asciugamani sporchi. Nessuno si accalora, il tono è sommesso, nessuno grida, nessuno indica, ma tutti tengono gli sguardi fissi sull’interlocutore. La ragazza in pelliccia ha perso ogni iniziativa, sento che tra poco, se io non le darò retta, tornerà da dove è venuta. L’uomo calvo voleva lei, adesso mi è chiaro. Sono stanco. Un’ora, un’ora soltanto. Mi riposerò e poi si vedrà. Ho bisogno di ricominciare dal mio zero più recente.

Non credevo, ma è come tornare a casa. La sensazione di familiarità mi insinua un dubbio: mi chiedo cioè quanto tempo davvero abbia passato qui dentro. Ho mangiato, dormito, fatto sesso in questa baracca a rimorchio? Riconosco il lavello fatiscente, i sedili di finta pelle squarciati in più punti, il materasso nudo sul quale mi sono risvegliato in un bagno di sudore. Prima, prima di questo, dove abitavo? È un attimo, un attimo solo. Voltandomi per cercare qualcosa di commestibile da ingoiare mi è sembrato di vedere una piccola figura, come di un bambino, intento a scrivere o disegnare su quella ribaltina in formica che dovrebbe fungere da scrivania. Mi assale un’enorme tristezza, la sento acchiapparmi le costole e spingere verso la parta alta del petto, come se stesse per esondare. Non c’è nessun bambino evidentemente, ma basta questo a ricordarmi che molti anni fa, quando avevo sei, sette anni, io vivevo con mio padre in una roulotte come questa. Ce ne andavamo in giro, noi due, mentre una madre e una casa vera erano soltanto una promessa, rinnovata con quella rozza premura di cui era capace ogni volta che quel misto velenoso di noia e solitudine mi faceva affiorare le lacrime e lui non sapeva come ricacciarle dentro.

giovedì 1 dicembre 2011

Loading - episodio 2. Bevi l'acqua del mare

Io spero adesso che quello che vedo, così com’è venuto, sparisca. Anche se dovesse tornare il deserto. Ma la scena è persistente, ed è il caso che mi ci rassegni. Cosa ci fa quella specie di femme fatale in tanga e gilet di pelliccia? Mi sta guardando, è ovvio, cerca la mia attenzione. Eccola, si alza, con un fare gattesco che più che trovare seduttivo mi sconcerta. Ha gli occhi puntati su di me, mi rivolge la parola, io ancora non sento. Dice Mare, mare. Mi prende per mano, mi conduce attraverso asciugamani e resti di picnic a base di corpi umani, percepisco il loro sudore ovunque, le loro puzze che salgono come dai fornelli di una bettola seminterrata. La consistenza delle sue dita assomiglia a quella di una barbie, dita di plastica, scivolose, prive di articolazioni. Con il pollice le scansiono, avanti e indietro. La assecondo e la seguo come un carrellino attaccato a una strana creatura, metà unicorno metà somaro, che potrebbe portarmi ovunque. Qualcun altro mi osserva, un uomo taciturno, seduto sulla sua stuoia, l’unico tra la folla inerte che sembra dotato di una qualche volontà. Assiste al triste spettacolo e aspetta che io faccia qualcosa. Mare, mare, continua a ripetere con voce suadente la mia padrona di plastica. Gli occhi di lui mi puntano, stanno cercando dentro di me qualcosa, una conferma. Ora so che mi stava cercando, che mi aspettava. 
Ho già i piedi in acqua, un’acqua calda che non apporta alcun refrigerio. La donna si è fermata, ha ritirato la sua mano dalla mia e ora la usa per farmi un cenno: Bevi, mi dice. Vuole che beva l’acqua del mare, che mi inginocchi e ingoi dell’acqua salata. L’uomo si è avvicinato, vuole vedere come mi comporto. Io rimango immobile. Ogni volta che la assecondi, la rendi più forte. È lui che ha parlato, con voce bassissima ma comprensibile. La donna lo guarda, evidentemente si conoscono. Mi accorgo adesso completamente della sua bellezza patinata, ha le labbra e gli occhi vistosamente truccati. Se mi trovassi in un’altra situazione troverei il suo assurdo gilet di pelliccia del tutto ridicolo, o addirittura grottesco. Ma adesso mi fa quasi paura, mi sembra il segno di una bestialità pronta ad esplodere. Ora torna a occuparsi di me, e mi indica la roulotte. Andiamo lì, mi dice, abbassando appena le palpebre in un languore che mi dà i brividi. Io guardo l’uomo, lo fisso per cercare di estorcergli qualche indicazione. Non mi fido di lui, non lo conosco, ma qualcosa mi dice che non ho di meglio a disposizione per decidere. Scrolla appena la testa. Alzo lo sguardo. Il mare è piatto, immobile, come se ci trovassimo sulla riva di un lago poco profondo, ma di cui non riesco a intravedere la fine. La costa è dritta, tesa come un argine, per chilometri e chilometri. Vieni, fa lei. Vieni. Ancora la voce dell’uomo che interviene: Stai attento, la paura è desiderio camuffato. 

mercoledì 30 novembre 2011

Loading - episodio 1. Veniamo al mondo in una roulotte

Sonno crudele. Quel genere di sonno che stordisce, e invischia ogni cosa. Come sono finito sul materassino in gommapiuma di una roulotte sudicia non posso dirlo. Ci sono e basta, e ora devo anche trovare le forze per rimettermi in piedi. Dagli oblò di questa specie di cuccia ambulante entra luce, la tipica frivola sfacciataggine del sole che ora è particolarmente fuori luogo. La testa mi fa molto male, una specie di corona di spine sotto l’attaccatura dei capelli. Sotto lo sterno si direbbe che mi hanno scavato con un cucchiaio affilato. Cercavano il mio punto vitale e forse l’hanno trovato. Poi ricollego, e ricordo a grandi linee cosa mi è successo. Qualche scena, anche, che cerco di respingere come posso perché ho già la nausea. Quanti ci saranno al mondo, nelle mie condizioni, ancora vivi? Uno, anche uno solo che abbia resistito? Io sono il risultato di diversi miracoli. Ragione in più per lasciare il prima possibile questo posto schifoso.
Un cigolio di porta, tre gradini fatti con blocchi da costruzione. Posso dirmi fuori. Ho sete, penso che potrei tornare nella roulotte, ma non mi fido, potrebbe esserci veleno nelle bottiglie, ammesso che ci siano bottiglie. Volevano che morissi, o che guarissi lentamente quel tanto da poterci provare ancora? Sono fuori, comunque, e la mia prima decisione è stata presa: non tornerò per nessun motivo indietro. Ma ora che ho varcato la soglia quello che vedo è sconcertante. C’è il sole all’orizzonte, saranno almeno le undici, molta polvere nell’aria, un leggero rumore di vento. E poi il deserto, ovunque. 
Ovunque tranne alla mia destra, a meno che non si tratti di un miraggio, cosa che non posso escludere con questo caldo. In quella direzione, in fondo, si vede una macchia scura. Ora che guardo meglio il deserto non è sconfinato come mi era parso. Ci sono delle montagne all’orizzonte, mi arriva anche l’odore di mare. 
Mi volto ancora. Devono avermi intaccato il nervo ottico. A quanto pare ci impiego alcuni secondi per vedere tutto. Le cose mi arrivano a pezzi, come se dovessi caricare una pagina internet con un vecchio modem. Prima è arrivata la polvere, con il vento. La sabbia, qualche immagine distante. Non mi trovo in un deserto. Adesso sento anche dei rumori, voci di persone. Mi trovo in una spiaggia, ora vedo anche il mare. Deve essere piena estate, perché fa molto caldo e a pochi passi da me c’è una selva di gente.

martedì 29 novembre 2011

La fine del mare

Era la giornata ideale. Hal desiderava immergersi in quelle acque da molte settimane, ma il maltempo, impegni imprevisti, seccature di varia natura lo avevano sempre costretto a rinunciare. Quella mattina capì subito che era la volta buona. Preparò la muta, gli erogatori e il resto dell’attrezzatura, andò a cercare il portafortuna che si legava sempre al polso quando andava sotto e prima di indossarlo ne saggiò una a una le punte di stella marina stilizzata, regalo di una vera amica. Avrebbe voluto correre subito al mare, scendere per le rocce - dalla strada venti minuti se andava bene, con tutto quel peso - e poi tuffarsi. Ma preparando il necessario si era accorto che la boa di segnalazione era rovinata, forse uno scherzetto del gatto, nonostante fosse stata riposta correttamente. Così Hal dovette andare in paese, aspettare l’apertura del negozio per sub, e acquistare una boa nuova, identica alla precedente. Ma mentre i pensieri si infrangevano contro la massa dura e ovoidale della sua pazienza ben addestrata, sentiva che il desiderio continuava a essere più forte, e avrebbe superato qualunque piccolo imprevisto. In maggio il mare è ancora impregnato dei segreti di tutto l’inverno, e lui moriva dalla voglia di scoprirne qualcuno.
Fu in acqua solo verso le undici. Nonostante la muta da 6 mm provò un brivido, e fu sfiorato dal timore, appena sentì il rumore alieno e cadenzato del respiro. Poi però tornò tranquillo e cominciò a immergersi. Rivolgeva lo sguardo ovunque, sfruttando la poca luce che ancora filtrava. Sentiva i colpi di pinna spingerlo con grande fluidità, le spalle adesso erano abbastanza calde, e continuava a scendere, scorrendo come un corpo che si era finalmente ricongiunto al mare. Meno quindici, meno diciassette, meno venti. Il profondimetro gli teneva compagnia con un incedere regolare. Tutto procedeva magnificamente. All’improvviso provò una sensazione strana. Il mare era finito. L’acqua, le rocce, i piccoli pesci furtivi che non aveva voluto disturbare. Non c’era più niente. Niente. Aveva trovato la fine del mare.

lunedì 28 novembre 2011

Champagne o lambrusco?

Scarlett Johansson, attrice                   Conchita De Gregorio, giornalista














domenica 27 novembre 2011

Candido e rancido



Aprire un libro e vedere le parole consumate. Non so se si tratta di usura, ma come risposta a quello che vedo sento qualcosa, dentro il mio cranio, che si aggancia al soffitto della testa come i ganci di una macelleria, che tira gli occhi e la gola e rende penoso persino respirare. Sono in libreria, vedo il cumulo delle novità/proposte, non riesco quasi ad avvicinarmi. C’è un libro rosso con un bicchiere da vino riempito di latte in copertina.

sabato 26 novembre 2011

giovedì 24 novembre 2011

Veri terroni

Per uno che è nato a Palermo da genitori panteschi, e vive a Bologna solo da qualche anno senza aver spostato di una virgola il suo nasalissimo accento di "Palermo-centro", la parola terrone possiede numerose sfumature. Vibra di volta in volta in maniera diversa: finto-affettuosa canzonatura, orgogliosa e amarognola rivendicazione, esplicita offesa. Eviterò di girare la frittata, rievocare i sacri valori della terra, trovare antidoti e consolazioni: si tratta di una parola spiacevole, comunque la si voglia mettere. Il terrone è, bene che vada, un po’ cafone. Oggi chiamo un ufficio del vero sud, ho da compilare un temutissimo F24 e mi mancano dei dati. Alla prima telefonata, dopo una decina di inutili squilli, sento intervenire un’agghiacciante segreteria telefonica che con accento squisitamente meridionale (la erre spiaccicata sui denti, la labiali triplicate sempre, str liquidate con uno ch di cheval) mi ripete in loop infernale che il mio tempo di attesa sarà il più breve possibbbile. Il ritornello è talmente serrato che non riesco neanche a sorriderne, è solo fastidioso. Possibbbile possibbile possibbile. Ma ho quasi voglia di incazzarmi, voglio una scusa, è da giorni che cerco qualcuno o qualcosa per una bella sfuriata e decido che me lo ascolto, voglio vedere fino a che punto arriva. Naturalmente la terminator suddica non batte ciglio, può proseguire per mesi così, forte della incompresa ma utilissima tecnologia. Dopo due minuti, per metà dei quali la cornetta è riversa pancia all’aria come un insetto intossicato e continua, a debita distanza, a emanare l’irritante mantra della cortesia terrona, riaggancio. Mi faccio coraggio,

martedì 22 novembre 2011

L'insalata russa


Piselli, carote e patate a quadretti, uova olive se si vuole maionese in grande quantità, quanto basta quanto ingorda, e poi il tocco segreto: gamberetti e capperi. L’insalata russa di mia madre è tra le poche cose che ho ereditato da lei. Parentesi sull’eredità: è veramente ereditato ciò che viene donato. Le prime volte che l’ho preparata era quasi un’eucarestia, poco ci mancava che recitassi qualcosa e disponessi le guarnizioni a mo’ di rosario. L’ho fatto persino pateticamente, con le palpebre rigonfie e gli occhi acquosi. Ora, invece, acquisita la tecnica e cucinata a dovere l'elaborazione del lutto - pietanza dal retrogusto assai persistente -, mi pongo un altro problema. Quando invito gli amici a cena mi chiedo, a volte con quella polemica ossessiva da ruminatore convinto che mi tiene grande compagnia, se quello che offro è autentico. Buono e autentico sono due cose molto diverse, e quasi mai una cosa implica l’altra. Mi sono visto più di una volta vanitoso, esibire portate. Voglio intimamente che delle mie cene si dica “Ho mangiato benissimo, fino a scoppiare”, ma da quando mi sono sorpreso in questo atteggiamento, questa cosa mi mette perfino tristezza. Non gli amici, non chi siede alla tavola ma i loro complimenti? Per fortuna cerco di starci attento. Come è difficile agire senza vanità, anche in questo, specie in ciò che dovrebbe essere un dono. Al di là delle facili idealizzazioni mia madre metteva davvero poca vanità in cucina, che è invece la cosa che spingeva mio padre in esibizioni ai fornelli. Lei ci nutriva, ci faceva stare allegri, lui voleva farci capire quanto era bravo e fulmini se non si apprezzava. Non posso non citare a questo punto il celebre maial flambé di Tognazzi, che è perfetta sintesi di un certo modo di fare cucina, e di stare al mondo. Deve essere tipico degli uomini, per questo ci sono così tanti grandi chef maschi. (E se aggiungessi del caviale, giusto lungo i bordi?)

venerdì 4 novembre 2011

Wicklot - prima parte

La sottile striscia di terra che chiamano città è morta. Il fiume la divide come un nastro oleoso, sopra vi scorrono relitti di ogni genere. Non c’è differenza tra un pezzo di tronco e un corpo gonfio sommerso per metà. Da qui sono tutte inezie scolorite, sottomesse a una volontà inesorabile che li conduce a un unico grande contenitore. Per quanto mi riguarda ogni cosa accade dietro un vetro, a una distanza che non riuscirei neppure a quantificare. Non ci sono odori speciali o rumori che valga la pena sentire. Sembra solo che un’enorme macchina tritapietre lavori incessantemente, per ingoiarsi la città un pezzo alla volta, ma è ancora molto lontana, all’opera in un indefinito orizzonte, e non sembra avere fretta di venire a trovarmi.

Stamattina ho mangiato come ho potuto. Detesto mangiare, è l’unica cosa per la quale veramente dipendo ancora dal mondo di fuori, ma dal momento che possiedo ancora uno stomaco non ho grosse alternative. Il liquido latteo era poco e ho preferito diluirlo sporgendo la tazza dalla finestra. Non mi sono mai abituato al sapore, ma nessuno è veramente certo che faccia più male del resto. Domani, in ogni caso, avrò ancora dove inzuppare il pane e se proprio vuole occuparsi di me, la morte dovrà trovare un altro sistema. Di mollica ce ne dovrebbe essere abbastanza per una settimana, me l’ha portata un flamand in uniforme tre giorni fa. È entrato coi suoi enormi anfibi distribuendo sudiciume fresco fin dentro la cucina. Ha detto di chiamarsi Wicklot, o qualcosa del genere, ma la seconda volta l’ha pronunziato alla maniera dei walo, Wicklò, pensando stupidamente di conquistare così la mia simpatia. Sembrava che le suole gli facessero da piedistallo di gomma. Io l'ho guardato in silenzio, seduto - se potessi, mi veniva da dirgli, mi metterei in piedi e ti farei vedere -, mentre mi faceva ombra, e ho pensato che in abiti civili sarebbe stato più basso di almeno sei dita. Si era lasciato una striscia di capelli rossicci, dall'attaccatura alla nuca, come una specie di mohicano, per rendere ancora più paurosa la faccia incollata al teschio. Non muoveva quasi le labbra, quando parlava, come se la bocca fosse una ferita che stava attento a non riaprire.

Era riuscito a contattarmi la sera prima, e io gli avevo richiesto viveri secondo le ultime quotazioni dei trasferimenti interni. È un modo come un altro per stabilire i prezzi, ma certo ci rimetto. In cambio di due pugni di pane ripristinato, meno di mezza oncia di foglie da infuso e una specie di ciambella molliccia che odorava di formaggio io avrei scritto per il fratello. Il mio lavoro vale adesso secondo mercato quanto fare attraversare a qualcuno due quartieri. Due quartieri da qui significa uscire dalla prima zona. Certo non un gran viaggio, soprattutto se si pensa che la prima zona è il posto più sicuro al mondo, mentre quel che faccio io il più delle volte salva la vita. Comunque così avevamo pattuito, con l’arida urgenza e il profondo disinteresse che contraddistinguono le nostre esistenze, e sapevo bene che non c’era niente da recriminare.

L’uomo che stava immobile davanti a me, rigido come un fantoccio, combatteva da sei settimane e aveva cambiato fronte già due volte. Forse prima di essere un flamand era stato un walo, e allora il suo nome sarebbe stato Huiclos, e prima ancora un uomo senza appartenenza, magari con un nome civile, tipo Fredo, o Neerl. A parte quella cosa stupida del nome non era affatto gentile, e io avevo l’impressione di avere già svelato tutta la buona disposizione d’animo che gli restava. Gli avevo detto della macchina tritapietre, del rumore che sentivo, senza tregua. Avevo usato un tono ambiguo, quasi che lui sapesse come farli smettere. Sono i cannoni, mi aveva risposto come chi non fa caso più a niente. Di chi?, avevo insistito. Di tutti. Non è più la città, adesso, il territorio conteso. 
- Ah no?
- No. I cannoni hanno una gittata sempre più corta e poco ci manca che si sparino addosso -. Non mi aspettavo che mi desse tutte queste spiegazioni, ma di fatto quella è stata l'ultima frase articolata che ha detto.

Ne ho incontrati molti come lui, sta diventando un genere diffuso. Ho visto anche un certo numero di miei vecchi compagni walo comportarsi alla stessa maniera. Si vantava del fatto che alcuni dei cadaveri che vedevo scorrere da giorni sulla Mosa li avesse accoppati personalmente, dalle colline del Condroz. Rimanevo immobile, mentre aspettavo che gli ultimi colpi della sua risata secca svanissero del tutto, assorbiti dal rumore continuo della macchina tritapietre che da quando era entrato sembrava fosse cresciuto, e che la sua smorfia sopra il mento tornasse a rimarginare. C’era persino della vanità, nelle sue parole. Sotto questo aspetto, per quanto possibile, ho provato una specie di invidia. Molti di quei morti erano stati suoi compagni, prima che indossasse un’altra divisa. Entro un mese, se mai ci fosse stato per lui ancora un intero mese, avrebbe cambiato parte di nuovo, e avrebbe trucidato qualcuno dei suoi commilitoni di adesso, magari uno di quelli che, in cambio di qualche favore possibile solo attraverso una forma di violenza, gli avevano procurato i viveri con cui mi pagava.

Come prima cosa mi ha chiesto con insolenza se nascondessi dei proiettili, da qualche parte. Sono stato indulgente, ho pensato che deve conoscere solo questi modi, e ho scrollato le spalle, per dire Cerca pure, troverai solo blatte: è bastato perché rinunciasse. Conoscono due o tre atteggiamenti, non più. D'altronde ogni giorno si svegliano, controllano di essere ancora vivi e poi cercano di conteggiare quante persone hanno ammazzato fino a questo punto. Mi chiedo se contino loro stessi tra i vivi o tra i morti, ma questa deve essere l'unica raffinatezza possibile in questo genere di contabilità.

In silenzio, mentre continuava a starmi ancora davanti, fantasticavo che il fiume gli scorresse sotto gli occhi in senso inverso, mostrandogli due volte quei cadaveri. Ma poi ho capito che questa che io intendevo come una specie di tremenda punizione avrebbe ottenuto su di lui l'effetto contrario e anzi si sarebbe inorgoglito doppiamente, così me l’ero proibita. Non c’eravamo detti altro, ma con un gesto da primitivo mi aveva regalato del tabacco quasi secco pescato dal fondo di una tasca. La mia vecchia pipa mi era stata rubata e non avendo come fumarlo ne avevo messo subito un poco in una narice, avendo cura di non sbriciolarlo, manipolandolo con la punta estrema delle dita. Pizzicava come deve fare il vero tabacco. Con un dito lo avevo appena bagnato di saliva, e si era un po' rinvigorito, sebbene l’odore della saliva mi desse fastidio. Avevo tratto un respiro profondo, sospinto fino al fondo dei polmoni, lì dove ancora deve rintanarsi qualche bolla d’aria pulita, la sola cosa grazie alla quale sopravvivo. Erano settimane che non provavo una sensazione simile, una specie di euforica liberazione, ma malauguratamente non ero solo. Continuava a guardarmi, senza mai sciogliersi da quella posizione che doveva sentire degna di un militare. Estrassi il tabacco dalla narice e lo conservai nel palmo della mano che chiusi come un pacchetto: l’avrei finito di gustare dopo. Per un momento avevo avuto l’impressione che si stesse riposando, proprio in casa mia, immobile in quella posa idiota. Magari pensava che ero un privilegiato. Non avevo nessuna voglia di ringraziarlo, né di compatirlo, né di stringere una qualsiasi forma di amicizia: io avrei cercato di salvare suo fratello e saremmo stati pari. Non avevo mai pensato al fatto che dietro i vetri della mia finestra, nelle mie condizioni, qualcuno potesse pensare che io vivessi in una sorta di tregua. Forse c'era persino da essere orgogliosi, o almeno lusingati, ma quell'uomo mi imbarazzava, e non mi consentiva neppure di provare veri sentimenti. Poi, finalmente, aveva deciso di andarsene, portandosi dietro un po' del mio sudiciume domestico. Mi aveva annunciato sulla porta che la notte stessa sarebbe partito per la costa. Avevo pensato che se lasciava il continente era perduto. Ci sono ancora navi? avevo chiesto con un'ingenuità tutta impiastricciata. Ma lui non aveva risposto. Solo dopo che era trascorso un po’ di tempo, da solo, io e la macchina tritapietre in sottofondo, mi ero reso conto che avrebbe potuto essere un agente di controllo e che io avevo appena rischiato di morire prima del tempo.

venerdì 28 ottobre 2011

Palle di sego

Palle di sego - parte prima


L’eurostar di domenica pomeriggio doveva farmi scivolare nel cuore di una città nota e relativamente amata; appena dopo la prima cerchia di mura, superata una macchia di alberi molto belli, avrei riconosciuto la mia casa. Porta Saragozza sarebbe stata il mio arco di trionfo erotico e sentimentale. Invece al mio cospetto si è presentato il niente. Per la precisione il niente infastidito è venuto a prendermi alla stazione e il medesimo niente annoiato e oramai certo di nullificare benissimo anche senza di me ha preparato una cena automatica mettendo assieme patate semi-crude e uova. Come se il formaggio da solo, dispensato senza misura e fregandosene degli effetti sulla liquidità del sangue, possa cementare e risolvere. Ho snocciolato qualche innocuo particolare sulla mia trasferta aziendalese, ma non ha attecchito, finendo tra le briciole. Per la prima volta da che mi ricordi ho trascorso scientemente la notte in nulloteca. C’era da non dormire per cercare una definizione adeguata a tutto questo, ma come al solito il sipario ha prevalso e scambiandoci un paio di scuse non abbiamo neppure fatto l’amore.

Sono anni che cambio città, in cerca di un’aria che mi faccia star meglio e mi suggerisca una nomenclatura appropriata. Ho vissuto in Languedoc, in Vallonia, in Catalogna, in molte città di quella che ancora chiamano Italia, prima che torni l’età dei Comuni, forse la sola condizione politica che siamo in grado di gestire. Porto appresso il mio usuale fagotto, valigie sempre più pesanti che congiurano per maldischiena sempre peggiori e che un marzo o l’altro avranno la forza di pugnalarmi. Il cielo e le architetture cambiano, ma non c’è un solo quartiere in cui mi sia sentito veramente a casa, tranne forse Les Aubes a Montpellier e solo per alcune ore del pomeriggio. Una volta ogni due anni adotto una gatta, ma dopo poco mi rendo conto di spalare merda da una cassettiera senza avere in cambio niente di rilevante. Le fusa appagano principalmente chi le produce. È provvisorio e casuale l’incontro in penombra con un corpicino peloso, il contatto per tutta la lunghezza dello stesso. La mia mano gli scorre sopra, secondo il senso del pelo e al contrario. Va e viene sopra la folta pelliccia persino con competenza. Ma soprattutto Nanà, la gatta di adesso, non è mai troppo propensa alle effusioni: deve esserci molto caldo, naturale o indotto dai sistemi di climatizzazione, oppure molto torpore gattesco perché si verifichi questa pennellata carnale, e lo scambio di piacere epidermico che ne consegue. Per il resto è quasi soltanto una compagnia olografica dotata di coda a banderuola uncinata, che conosce due o tre pose interrogative e sfacciatamente funzionali. Aveva ragione mia madre, ma in un senso diverso da quello che lei intendeva: la differenza la fanno le persone. La farebbero, cioè, se ce ne fossero. Tento in ciascun posto di far prevalere il paesaggio, allora. Mi rivolgo a palazzi ducali, a fossati, ai bordi del cielo punzonato dai tetti. Continuo a salire sui colli che circondano Bologna, città marrone e rossastra che ogni tanto chiamo Lasagna, mischiando affetto domestico e acido disprezzo per tanto spirito borghese che la fa tanto assomigliare a Stoccarda. Proseguo l'opera di autoconvincimento ma la vista non ha senso: l’equivalenza tra i grattaghiaccio dell’Ospedale Maggiore e le torri storte che sopravvivono dentro le mura non potrà mai soddisfarmi.

Sono tornato a lavoro lunedì. La collega antipatica, mia frontaliera di scrivania, ha preso due giorni di ferie: questo è un bene, perché oltre la cornice del monitor del pc non ho scorto per due periodi da otto ore abbondanti ciascuno la sua espressione stretta e purulenta da sfintere. È decisamente bionda, ha due occhi chiari magnifici e taglienti, e il viso coperto di acne. La testa è una pallina inespressiva a fine collo gonfia nel naso, nelle guanciotte e nelle orecchie, carnose come qualunque cosa sporga dal tronco principale che è tuttavia estremamente magro e ben sagomato. Persino eccitante, se preso a solo. Gli orecchini penduli con cui gioca tra le undici e quindici e le undici e ventisette, nel momento di massima indecisione circa il fatto di scendere o meno alla macchinetta del seminterrato, e se una volta scesa cavarne un tronky oppure un kinder bueno, sono piccoli ganci conficcati in un quarto di bue. Le sue frasi preferite sono: è freddo, è caldo, ho sonno, mi brucia un occhio avrò anch'io l'orzaiolo. La cadenza suona marginalmente padana, con le consonanti di inizio parola pronunziate leggere e un volant di cantilena sul finire che oltralpe considererebbero estremamente terrona. Il suo hobby più concreto consiste nel rosicchiare le unghie cominciando dai lati. Si esibisce quasi sempre in un atteggiamento infastidito; adora vedere qualcuno in difficoltà irrisolvibili ma si accontenta anche che semplicemente a qualcuno, anche uno che conosce poco, vadano male le cose. Il Ciao disturbo?, ripetuto a telefono alcune decine di volte al giorno a non più di cinque persone diverse col pretesto di lavorare mi incrina le ossa come mi sottoponessero a un crash-test contro pareti di metallo. Soprattutto il ciao, miagolato e ben ventilato sopra la a. La cosa che mi infastidisce di più è la sua età: ha appena compiuto ventiquattro stupendi anni, e già odia il mondo in questo modo. Il papà deve avergli detto che risulta deliziosa quando fa così e così, e lei lo fa anche con gli altri. È una bimba capricciosa e brutta o bella a seconda della luce e della ritenzione idrica in atto, e che cerca di continuo una relazione superficialmente incestuosa, trasformando prima ciascun maschio che compare all’orizzonte in padre, e solo poi in amante. Riserva particolari attenzioni solo a chi conta qualcosa in azienda: accoglie con ampi sorrisi e conserva il free-press ben piegato sulla scrivania per il quasi quadro - poverino, aspetta una promozione da forse due anni, ma per ora è solo impiegato di settimo livello: si vede che non tiene santi in paradiso - che ci controlla in stanza. Non uscirebbe mai un euro per acquistare un giornale con le stesse notizie. Fa complimenti ad accessori maschili in oro giallo e bianco degni di un boss salentino. Se serve sa trovare bello e elegante persino un abito marrone a due bottoni e scarpe dalla punta quadrata con un bassorilievo floreale profondo mezzo centimetro. Accoglie compiaciuta ma senza mai cedere alla lusinga i complimenti di tutti. Li raccoglie proprio, come se avesse una cassetta, e quando lo fa sembra un ritratto fiammingo. È rigida, intollerante in forme estreme con chi considera poco importante, del tutto priva di ironia. Ride prominendo la testa-palluzza e martellando sulla ah o sulla eh, non più di cinque o sei volte, perché poi stanchezza e soddisfazione si raggiungono neutralizzandosi. Se è il caso poggia al contempo tre polpastrelli delle dita medie di una mano dal polso vezzosamente spezzato appena sotto la fossetta iugulare. Se le fai una domanda esplicita, con un silenzio molto eloquente ti comunica che non voterà mai a sinistra, con la faccia di chi sa che qui, terra rossa un po’ per tradizione un po’ per fede un po’ per convenienza - più o meno in parti uguali -, rischia persino di passare per coraggiosa. Ma se non si ha voglia di innervosirsi è meglio non chiederglielo.

C’è una figura abbastanza ridicola che percorre i nostri corridoi. È un commerciale calabrese, calvo, esile di corporatura, dal muso storto e la camminata disarticolata come se gli avessero montato un paio di ginocchia in più: trascorre le intere giornate a telefono contrattando con i vari fornitori e dannandosi l’anima per uno zeroquattro percento. Dalle sue telefonate si prospettano giorni difficilissimi per la crisi del pomodoro che è uguale al sammarzano ma che l'hanno modificato con una pelle da rinoceronte che quando lo metti sui camion non si rovina neanche se prende fuoco e poi i pompieri ci buttano sopra la polvere e magari ci pisciano ma quello ti dico è perfetto. Oppure, tendendo neanche più di tanto l’orecchio, è possibile sapere dell’olio minerale ucraino finito nelle maionesi di gran marca, ma tanto hanno trovato l’espediente di scriverci omega-3 nelle confezioni nuove, lo mettono bello grande, ti faccio vedere che non se ne accorge nessuno, fra tre mesi chi si ricorda: questo è il marketing vero, che ripulisce. Bravi, bel lavoro. Poi c’è il dramma inusuale del pesto senz’aglio che imprevedibilmente non piace alle donne giovani ma solo a quelle in menopausa perché forse uno degli additivi è un derivato del progesterone ma per ora non diciamo niente, vediamo prima come va e se se ne accorge nessuno. Per non parlare dei condimenti iodati che faticano a esprimersi tra gli scaffali perché il colore verde che hanno scelto per il packaging non evoca abbastanza il senso di tutela della salute, glielo avevo detto a quegli stronzi che la salute o è bianca o è celeste, ma poco, al più bianca con una banda celesta - dice proprio celesta, con la a - sopra, sono ignoranti sono. La congiuntura negativa degli aromi per il pesce che stentano ad affermarsi non tira su il banco del pesce come tutti speravano non è neanche quello argomento da tascurarsi. Né si sa più dove mettere le tonnellate di aceto balsamico prodotto e accumulato da decenni da qualunque micragnoso produttore di vino anche ben fuori la provincia di Modena, qualcuno mormora persino in Slovenia. Ecco perché l’Adriatico fa ‘sta puzza. Sei io ti do il cinque tu devi darmi il tre altrimenti non è possibile, non andiamo d’accordo. Se poi hai contenziosi con le mail, fai come me: rispondi con tutta la cronologia, metti in copia nascosta il tuo direttore e scrivi ti voglio bene. C’è da riderne o sorriderne, di lui e delle novità che porta, a noi che passiamo tutto il santo giorno a imbastire fogli excel con pivot di pivot alla ricerca di un dato veramente sensato. Lei, la mia dirimpettaia, niente, riesce solo a disprezzarlo: è povero anche in proiezioni di lungo termine, abbondantemente sfigato e malpiacente, brutto inutile. Si augura a voce alta che uno di questi giorni un responsabile gli dia un bel calcione nel sedere, quel che si merita. Terrone di merda.