mercoledì 30 novembre 2011

Loading - episodio 1. Veniamo al mondo in una roulotte

Sonno crudele. Quel genere di sonno che stordisce, e invischia ogni cosa. Come sono finito sul materassino in gommapiuma di una roulotte sudicia non posso dirlo. Ci sono e basta, e ora devo anche trovare le forze per rimettermi in piedi. Dagli oblò di questa specie di cuccia ambulante entra luce, la tipica frivola sfacciataggine del sole che ora è particolarmente fuori luogo. La testa mi fa molto male, una specie di corona di spine sotto l’attaccatura dei capelli. Sotto lo sterno si direbbe che mi hanno scavato con un cucchiaio affilato. Cercavano il mio punto vitale e forse l’hanno trovato. Poi ricollego, e ricordo a grandi linee cosa mi è successo. Qualche scena, anche, che cerco di respingere come posso perché ho già la nausea. Quanti ci saranno al mondo, nelle mie condizioni, ancora vivi? Uno, anche uno solo che abbia resistito? Io sono il risultato di diversi miracoli. Ragione in più per lasciare il prima possibile questo posto schifoso.
Un cigolio di porta, tre gradini fatti con blocchi da costruzione. Posso dirmi fuori. Ho sete, penso che potrei tornare nella roulotte, ma non mi fido, potrebbe esserci veleno nelle bottiglie, ammesso che ci siano bottiglie. Volevano che morissi, o che guarissi lentamente quel tanto da poterci provare ancora? Sono fuori, comunque, e la mia prima decisione è stata presa: non tornerò per nessun motivo indietro. Ma ora che ho varcato la soglia quello che vedo è sconcertante. C’è il sole all’orizzonte, saranno almeno le undici, molta polvere nell’aria, un leggero rumore di vento. E poi il deserto, ovunque. 
Ovunque tranne alla mia destra, a meno che non si tratti di un miraggio, cosa che non posso escludere con questo caldo. In quella direzione, in fondo, si vede una macchia scura. Ora che guardo meglio il deserto non è sconfinato come mi era parso. Ci sono delle montagne all’orizzonte, mi arriva anche l’odore di mare. 
Mi volto ancora. Devono avermi intaccato il nervo ottico. A quanto pare ci impiego alcuni secondi per vedere tutto. Le cose mi arrivano a pezzi, come se dovessi caricare una pagina internet con un vecchio modem. Prima è arrivata la polvere, con il vento. La sabbia, qualche immagine distante. Non mi trovo in un deserto. Adesso sento anche dei rumori, voci di persone. Mi trovo in una spiaggia, ora vedo anche il mare. Deve essere piena estate, perché fa molto caldo e a pochi passi da me c’è una selva di gente.

martedì 29 novembre 2011

La fine del mare

Era la giornata ideale. Hal desiderava immergersi in quelle acque da molte settimane, ma il maltempo, impegni imprevisti, seccature di varia natura lo avevano sempre costretto a rinunciare. Quella mattina capì subito che era la volta buona. Preparò la muta, gli erogatori e il resto dell’attrezzatura, andò a cercare il portafortuna che si legava sempre al polso quando andava sotto e prima di indossarlo ne saggiò una a una le punte di stella marina stilizzata, regalo di una vera amica. Avrebbe voluto correre subito al mare, scendere per le rocce - dalla strada venti minuti se andava bene, con tutto quel peso - e poi tuffarsi. Ma preparando il necessario si era accorto che la boa di segnalazione era rovinata, forse uno scherzetto del gatto, nonostante fosse stata riposta correttamente. Così Hal dovette andare in paese, aspettare l’apertura del negozio per sub, e acquistare una boa nuova, identica alla precedente. Ma mentre i pensieri si infrangevano contro la massa dura e ovoidale della sua pazienza ben addestrata, sentiva che il desiderio continuava a essere più forte, e avrebbe superato qualunque piccolo imprevisto. In maggio il mare è ancora impregnato dei segreti di tutto l’inverno, e lui moriva dalla voglia di scoprirne qualcuno.
Fu in acqua solo verso le undici. Nonostante la muta da 6 mm provò un brivido, e fu sfiorato dal timore, appena sentì il rumore alieno e cadenzato del respiro. Poi però tornò tranquillo e cominciò a immergersi. Rivolgeva lo sguardo ovunque, sfruttando la poca luce che ancora filtrava. Sentiva i colpi di pinna spingerlo con grande fluidità, le spalle adesso erano abbastanza calde, e continuava a scendere, scorrendo come un corpo che si era finalmente ricongiunto al mare. Meno quindici, meno diciassette, meno venti. Il profondimetro gli teneva compagnia con un incedere regolare. Tutto procedeva magnificamente. All’improvviso provò una sensazione strana. Il mare era finito. L’acqua, le rocce, i piccoli pesci furtivi che non aveva voluto disturbare. Non c’era più niente. Niente. Aveva trovato la fine del mare.

lunedì 28 novembre 2011

Champagne o lambrusco?

Scarlett Johansson, attrice                   Conchita De Gregorio, giornalista














domenica 27 novembre 2011

Candido e rancido



Aprire un libro e vedere le parole consumate. Non so se si tratta di usura, ma come risposta a quello che vedo sento qualcosa, dentro il mio cranio, che si aggancia al soffitto della testa come i ganci di una macelleria, che tira gli occhi e la gola e rende penoso persino respirare. Sono in libreria, vedo il cumulo delle novità/proposte, non riesco quasi ad avvicinarmi. C’è un libro rosso con un bicchiere da vino riempito di latte in copertina.

sabato 26 novembre 2011

giovedì 24 novembre 2011

Veri terroni

Per uno che è nato a Palermo da genitori panteschi, e vive a Bologna solo da qualche anno senza aver spostato di una virgola il suo nasalissimo accento di "Palermo-centro", la parola terrone possiede numerose sfumature. Vibra di volta in volta in maniera diversa: finto-affettuosa canzonatura, orgogliosa e amarognola rivendicazione, esplicita offesa. Eviterò di girare la frittata, rievocare i sacri valori della terra, trovare antidoti e consolazioni: si tratta di una parola spiacevole, comunque la si voglia mettere. Il terrone è, bene che vada, un po’ cafone. Oggi chiamo un ufficio del vero sud, ho da compilare un temutissimo F24 e mi mancano dei dati. Alla prima telefonata, dopo una decina di inutili squilli, sento intervenire un’agghiacciante segreteria telefonica che con accento squisitamente meridionale (la erre spiaccicata sui denti, la labiali triplicate sempre, str liquidate con uno ch di cheval) mi ripete in loop infernale che il mio tempo di attesa sarà il più breve possibbbile. Il ritornello è talmente serrato che non riesco neanche a sorriderne, è solo fastidioso. Possibbbile possibbile possibbile. Ma ho quasi voglia di incazzarmi, voglio una scusa, è da giorni che cerco qualcuno o qualcosa per una bella sfuriata e decido che me lo ascolto, voglio vedere fino a che punto arriva. Naturalmente la terminator suddica non batte ciglio, può proseguire per mesi così, forte della incompresa ma utilissima tecnologia. Dopo due minuti, per metà dei quali la cornetta è riversa pancia all’aria come un insetto intossicato e continua, a debita distanza, a emanare l’irritante mantra della cortesia terrona, riaggancio. Mi faccio coraggio,

martedì 22 novembre 2011

L'insalata russa


Piselli, carote e patate a quadretti, uova olive se si vuole maionese in grande quantità, quanto basta quanto ingorda, e poi il tocco segreto: gamberetti e capperi. L’insalata russa di mia madre è tra le poche cose che ho ereditato da lei. Parentesi sull’eredità: è veramente ereditato ciò che viene donato. Le prime volte che l’ho preparata era quasi un’eucarestia, poco ci mancava che recitassi qualcosa e disponessi le guarnizioni a mo’ di rosario. L’ho fatto persino pateticamente, con le palpebre rigonfie e gli occhi acquosi. Ora, invece, acquisita la tecnica e cucinata a dovere l'elaborazione del lutto - pietanza dal retrogusto assai persistente -, mi pongo un altro problema. Quando invito gli amici a cena mi chiedo, a volte con quella polemica ossessiva da ruminatore convinto che mi tiene grande compagnia, se quello che offro è autentico. Buono e autentico sono due cose molto diverse, e quasi mai una cosa implica l’altra. Mi sono visto più di una volta vanitoso, esibire portate. Voglio intimamente che delle mie cene si dica “Ho mangiato benissimo, fino a scoppiare”, ma da quando mi sono sorpreso in questo atteggiamento, questa cosa mi mette perfino tristezza. Non gli amici, non chi siede alla tavola ma i loro complimenti? Per fortuna cerco di starci attento. Come è difficile agire senza vanità, anche in questo, specie in ciò che dovrebbe essere un dono. Al di là delle facili idealizzazioni mia madre metteva davvero poca vanità in cucina, che è invece la cosa che spingeva mio padre in esibizioni ai fornelli. Lei ci nutriva, ci faceva stare allegri, lui voleva farci capire quanto era bravo e fulmini se non si apprezzava. Non posso non citare a questo punto il celebre maial flambé di Tognazzi, che è perfetta sintesi di un certo modo di fare cucina, e di stare al mondo. Deve essere tipico degli uomini, per questo ci sono così tanti grandi chef maschi. (E se aggiungessi del caviale, giusto lungo i bordi?)

venerdì 4 novembre 2011

Wicklot - prima parte

La sottile striscia di terra che chiamano città è morta. Il fiume la divide come un nastro oleoso, sopra vi scorrono relitti di ogni genere. Non c’è differenza tra un pezzo di tronco e un corpo gonfio sommerso per metà. Da qui sono tutte inezie scolorite, sottomesse a una volontà inesorabile che li conduce a un unico grande contenitore. Per quanto mi riguarda ogni cosa accade dietro un vetro, a una distanza che non riuscirei neppure a quantificare. Non ci sono odori speciali o rumori che valga la pena sentire. Sembra solo che un’enorme macchina tritapietre lavori incessantemente, per ingoiarsi la città un pezzo alla volta, ma è ancora molto lontana, all’opera in un indefinito orizzonte, e non sembra avere fretta di venire a trovarmi.

Stamattina ho mangiato come ho potuto. Detesto mangiare, è l’unica cosa per la quale veramente dipendo ancora dal mondo di fuori, ma dal momento che possiedo ancora uno stomaco non ho grosse alternative. Il liquido latteo era poco e ho preferito diluirlo sporgendo la tazza dalla finestra. Non mi sono mai abituato al sapore, ma nessuno è veramente certo che faccia più male del resto. Domani, in ogni caso, avrò ancora dove inzuppare il pane e se proprio vuole occuparsi di me, la morte dovrà trovare un altro sistema. Di mollica ce ne dovrebbe essere abbastanza per una settimana, me l’ha portata un flamand in uniforme tre giorni fa. È entrato coi suoi enormi anfibi distribuendo sudiciume fresco fin dentro la cucina. Ha detto di chiamarsi Wicklot, o qualcosa del genere, ma la seconda volta l’ha pronunziato alla maniera dei walo, Wicklò, pensando stupidamente di conquistare così la mia simpatia. Sembrava che le suole gli facessero da piedistallo di gomma. Io l'ho guardato in silenzio, seduto - se potessi, mi veniva da dirgli, mi metterei in piedi e ti farei vedere -, mentre mi faceva ombra, e ho pensato che in abiti civili sarebbe stato più basso di almeno sei dita. Si era lasciato una striscia di capelli rossicci, dall'attaccatura alla nuca, come una specie di mohicano, per rendere ancora più paurosa la faccia incollata al teschio. Non muoveva quasi le labbra, quando parlava, come se la bocca fosse una ferita che stava attento a non riaprire.

Era riuscito a contattarmi la sera prima, e io gli avevo richiesto viveri secondo le ultime quotazioni dei trasferimenti interni. È un modo come un altro per stabilire i prezzi, ma certo ci rimetto. In cambio di due pugni di pane ripristinato, meno di mezza oncia di foglie da infuso e una specie di ciambella molliccia che odorava di formaggio io avrei scritto per il fratello. Il mio lavoro vale adesso secondo mercato quanto fare attraversare a qualcuno due quartieri. Due quartieri da qui significa uscire dalla prima zona. Certo non un gran viaggio, soprattutto se si pensa che la prima zona è il posto più sicuro al mondo, mentre quel che faccio io il più delle volte salva la vita. Comunque così avevamo pattuito, con l’arida urgenza e il profondo disinteresse che contraddistinguono le nostre esistenze, e sapevo bene che non c’era niente da recriminare.

L’uomo che stava immobile davanti a me, rigido come un fantoccio, combatteva da sei settimane e aveva cambiato fronte già due volte. Forse prima di essere un flamand era stato un walo, e allora il suo nome sarebbe stato Huiclos, e prima ancora un uomo senza appartenenza, magari con un nome civile, tipo Fredo, o Neerl. A parte quella cosa stupida del nome non era affatto gentile, e io avevo l’impressione di avere già svelato tutta la buona disposizione d’animo che gli restava. Gli avevo detto della macchina tritapietre, del rumore che sentivo, senza tregua. Avevo usato un tono ambiguo, quasi che lui sapesse come farli smettere. Sono i cannoni, mi aveva risposto come chi non fa caso più a niente. Di chi?, avevo insistito. Di tutti. Non è più la città, adesso, il territorio conteso. 
- Ah no?
- No. I cannoni hanno una gittata sempre più corta e poco ci manca che si sparino addosso -. Non mi aspettavo che mi desse tutte queste spiegazioni, ma di fatto quella è stata l'ultima frase articolata che ha detto.

Ne ho incontrati molti come lui, sta diventando un genere diffuso. Ho visto anche un certo numero di miei vecchi compagni walo comportarsi alla stessa maniera. Si vantava del fatto che alcuni dei cadaveri che vedevo scorrere da giorni sulla Mosa li avesse accoppati personalmente, dalle colline del Condroz. Rimanevo immobile, mentre aspettavo che gli ultimi colpi della sua risata secca svanissero del tutto, assorbiti dal rumore continuo della macchina tritapietre che da quando era entrato sembrava fosse cresciuto, e che la sua smorfia sopra il mento tornasse a rimarginare. C’era persino della vanità, nelle sue parole. Sotto questo aspetto, per quanto possibile, ho provato una specie di invidia. Molti di quei morti erano stati suoi compagni, prima che indossasse un’altra divisa. Entro un mese, se mai ci fosse stato per lui ancora un intero mese, avrebbe cambiato parte di nuovo, e avrebbe trucidato qualcuno dei suoi commilitoni di adesso, magari uno di quelli che, in cambio di qualche favore possibile solo attraverso una forma di violenza, gli avevano procurato i viveri con cui mi pagava.

Come prima cosa mi ha chiesto con insolenza se nascondessi dei proiettili, da qualche parte. Sono stato indulgente, ho pensato che deve conoscere solo questi modi, e ho scrollato le spalle, per dire Cerca pure, troverai solo blatte: è bastato perché rinunciasse. Conoscono due o tre atteggiamenti, non più. D'altronde ogni giorno si svegliano, controllano di essere ancora vivi e poi cercano di conteggiare quante persone hanno ammazzato fino a questo punto. Mi chiedo se contino loro stessi tra i vivi o tra i morti, ma questa deve essere l'unica raffinatezza possibile in questo genere di contabilità.

In silenzio, mentre continuava a starmi ancora davanti, fantasticavo che il fiume gli scorresse sotto gli occhi in senso inverso, mostrandogli due volte quei cadaveri. Ma poi ho capito che questa che io intendevo come una specie di tremenda punizione avrebbe ottenuto su di lui l'effetto contrario e anzi si sarebbe inorgoglito doppiamente, così me l’ero proibita. Non c’eravamo detti altro, ma con un gesto da primitivo mi aveva regalato del tabacco quasi secco pescato dal fondo di una tasca. La mia vecchia pipa mi era stata rubata e non avendo come fumarlo ne avevo messo subito un poco in una narice, avendo cura di non sbriciolarlo, manipolandolo con la punta estrema delle dita. Pizzicava come deve fare il vero tabacco. Con un dito lo avevo appena bagnato di saliva, e si era un po' rinvigorito, sebbene l’odore della saliva mi desse fastidio. Avevo tratto un respiro profondo, sospinto fino al fondo dei polmoni, lì dove ancora deve rintanarsi qualche bolla d’aria pulita, la sola cosa grazie alla quale sopravvivo. Erano settimane che non provavo una sensazione simile, una specie di euforica liberazione, ma malauguratamente non ero solo. Continuava a guardarmi, senza mai sciogliersi da quella posizione che doveva sentire degna di un militare. Estrassi il tabacco dalla narice e lo conservai nel palmo della mano che chiusi come un pacchetto: l’avrei finito di gustare dopo. Per un momento avevo avuto l’impressione che si stesse riposando, proprio in casa mia, immobile in quella posa idiota. Magari pensava che ero un privilegiato. Non avevo nessuna voglia di ringraziarlo, né di compatirlo, né di stringere una qualsiasi forma di amicizia: io avrei cercato di salvare suo fratello e saremmo stati pari. Non avevo mai pensato al fatto che dietro i vetri della mia finestra, nelle mie condizioni, qualcuno potesse pensare che io vivessi in una sorta di tregua. Forse c'era persino da essere orgogliosi, o almeno lusingati, ma quell'uomo mi imbarazzava, e non mi consentiva neppure di provare veri sentimenti. Poi, finalmente, aveva deciso di andarsene, portandosi dietro un po' del mio sudiciume domestico. Mi aveva annunciato sulla porta che la notte stessa sarebbe partito per la costa. Avevo pensato che se lasciava il continente era perduto. Ci sono ancora navi? avevo chiesto con un'ingenuità tutta impiastricciata. Ma lui non aveva risposto. Solo dopo che era trascorso un po’ di tempo, da solo, io e la macchina tritapietre in sottofondo, mi ero reso conto che avrebbe potuto essere un agente di controllo e che io avevo appena rischiato di morire prima del tempo.