mercoledì 29 febbraio 2012

assapori la mancanza

che amore indirizzi all’amato che sfugge, che tempo dài a un momento che non viene? è il segreto cavo che ti leviga il petto, consunzione che visiti ogni volta quando ti è concesso e cui pure ti imponi di non concedere alcun nome. La mancanza del riconoscervi, lo scivolare ai margini è duro come una rotaia che non si vuole piegare, non vuole giungere in alcun modo, ma gira gira e tu sopra come un carrello dal destino ininfluente. Ti rimane quel po' di vento della corsa, e il dolciastro e denso affanno, la stanchezza inane e liquorosa che già hai preso, per metonimia, ad assaporare.

lunedì 27 febbraio 2012

il piccolo Doinel


sul 93, il bus che prendo il pomeriggio per granarolo, c’è un ragazzino di seconda terza media, una creaturina alta sì e no due volte il suo zaino. Sale con me, gli do sempre la precedenza, così posso guardarlo da un numero buono di angolazioni. Assomiglia ad Antoine Doinel, ma proprio quello dei 400 colpi, quello per così dire originale, prima che si viziasse di narcisismo e finisse col non sapere più che farsene dell’amore di quell’angelo di Christine, Christine Darbon. Questo scricciolo spaurito se ne sta nel mezzo del corridoio, con aria fiabesca, spremuto dalle pance e i seni e le tracolle dei grandi e anche di altri ragazzi che sembrano tutti più grandi di lui, e pure la borsa che gli si è arrampicata sulla schiena, con quelle bretelle nere e malamente imbottite, sembra un grosso ragno che vuole farlo finire col sedere a terra. Un paio di volte sono stato tentato di sfiorargli la testa e dirgli Ragazzo, è meglio se lo posi, oppure chiedergli se lo voleva messo in alto, nel portabagagli accanto al mio, anche perché così dà pure intralcio agli altri. Ma io sono sicuro che quello zaino pesa perché dentro c’è del metallo, è un ragazzo sveglio che cerca di non destare sospetti, si mette quell’aria lì, da ingenuo, da spaurito di proposito, e invece dentro ha una specie di mitra smontato che deve portare da qualche parte. Stanno preparando un esercito, dopo Granarolo, c’è anche un bunker segreto, e un pezzo alla volta lui porta tutti i pezzi, perché devono montare un cannone gigante con il quale spareranno su Bologna, o Padova, non so, del resto ancora gli ordini sono imprecisi, ma certo dove si annidano quelli più alti, quelli che in autobus, per esempio, rendono l’aria che non si respira. Per questo lo lascio stare, e mi limito a buttargli un’occhiata ogni tanto. Così, giusto per controllare che non tiri fuori il mitra e faccia una sciocchezza.

giovedì 23 febbraio 2012

amici e nemici

no, no per favore. non spulciare le loro biografie, non cercare i sagittari e i saturni nella data loro che collimino o sfreghino coi tuoi, non pensare che siccome è nato lì, è di lotta continua, o di panorme, o di cielle, cambierà qualcosa. prendi solo le loro facce, guarda le loro facce. E poi, ammesso che senti, dimmi cosa senti. Vale solo quell'onda grigiastra/azzurrina che torna, come una melodia sommessa suonata tra sopracciglia e mento, con l'aiuto delle piccole rughe attorno agli occhi - magnifici risuonatori. Il resto è il calcolo della scorza umana, destinata a leccare terra alla prima pioggia: è qualcosa di tremendamente volgare che non ti meriti. né tu né un'altra

martedì 21 febbraio 2012

Io ti voglio felice

Io ti voglio felice.
Anch’io mi voglio felice.
Ne sei certo?
Certo che ne sono certo! È perfino banale.
Non credo, stai attento a dire queste cose. È più facile volere il bene degli altri che il proprio.
Che assurdità! Tutti vogliono il proprio bene. Sta scritto anche nei libri: Ama il prossimo tuo come te stesso. Si dà per scontato che ci si ama.
Tutti?
Tutti, indistantamente. È una cosa di natura.
Ma l’uomo non è tanto naturale.
L’uomo non è naturale? Oggi vuoi stupirmi con i tuoi paradossi.
Non voglio stupire nessuno, nessuno, e soprattutto non voglio stupire te. Ti volevo mettere in guardia.
In guardia?
Certo. Volevo metterti in guardia da chi non vuole che tu sia felice.
Come chi, per esempio?

La proposta dell'ombra


Gebren
-
E qui finisce ogni cosa.
Anhel
-
Persino la sabbia è più fine. Si arrende.
G.
-
Già.
A.
-
Perché ha capito.
G
-
Ha compreso.
A
-
Cosa ha compreso?
G
-
Che oltre il punto in cui siamo seduti non c’è più nulla.
A
-
E allora si ritrae.
G
-
Si arrende. Forse è un posto pericoloso.
A
-
Lo vedi quello?
G
-
Cosa?
A
-
Quello.
G
-
È una torre.
A
-
È un’ombra lunga. Assomiglia alla tua casa.
G
-
Che dici? È solo una lunga ombra.
A
-
Un’ombra che qui non arriva.
G
-
Anche lei si arrende.
A
-
L’ombra arriva, del resto, dove arriva la luce.
G
-
Se non c’è luce non c’è ombra neppure.
A
-
È una cosa evidente.
G
-
E quello, quello lo vedi?
A
-
È un cane.
G
-
È l’ombra di un cane.
A
-
Rimane distante, ha paura.
G
-
È prudente, preferisce non arrivare fin qui.
A
-
Tu cosa hai portato?
G
-
Ho portato quanto avevamo stabilito. E tu?
A
-
Anch’io, io ho portato quanto era stato stabilito. Ma facciamo in fretta.
G
-
E perchè?
A
-
Non respiro bene, non vedi che ho l’affanno?
G
-
Sì, da un po’, sei tutto rappreso. La tua cassa toracica diventa striminzita ogni momento di più.
A
-
È una cosa mostruosa.
G
-
Non più di tanto, ci si abitua. A me non dà fastidio.
A
-
A me sì, però! Che discorsi. Guarda che fatica che faccio a respirare.
G
-
Facciamo in fretta, allora. Più in fretta facciamo prima ce ne andiamo.
A
-
Prima ce ne andiamo prima torniamo dov’eravamo prima. Tutti e due.
G
-
Certo.
A
-
Una bella cosa.
G
-
Certo.
A
-
Una cosa confortevole.
G
-
Ovvio.
A
-
Un luogo conosciuto, dove tutti ti conoscono.
G
-
Sì, quasi tutti insomma.
A
-
No, proprio tutti.
G
-
Tranne a quelli a cui non interessi.
A
-
Ma sono pochi.
G
-
Dici?
A
-
Certo, pochissimi.
G
-
Tu a chi interessi?

lunedì 20 febbraio 2012

Il gioco delle nuvole

Era un vecchio pescatore che non pescava più da almeno vent’anni, da quando la spalla s’era intestardita a fare di testa sua e il braccio gli era rimasto sempre un poco sollevato. Se ne andava in giro per il paese, con quell’aria innaturale di sufficienza che gli davano i reumatismi e una camminata sbilenca, rigida e altezzosa. Mi era permesso di chiamarlo Mimì, e questo privilegio mi era stato dato perché ero forestiero, venivo dalla città a stare nella casa che era stata di mio padre e che suo genero mi aveva dato una mano a sistemare. Coi suoi tempi, s’intende.
Quando dalla terrazza lo vedevo gironzolare sulla banchina trovavo una scusa qualunque per raggiungerlo. Più di una volta ho ricomprato il giornale, o il pane. Oppure ho finto pentendomene amaramente che mi interessasse il tramonto scarlatto portato dalla tramontana gelida, più acuminata del rasoio della mattina. Ma il fatto è che Mimì non parlava mai, e quando apriva bocca c’era sempre qualcosa da prendere, a volte persino da conservare.
Ora lo vedevo, passeggiare da solo sulla banchina, dopo la partita a carte alla fine della quale aveva sicuramente mandato al diavolo gli altri giocatori con le sue secche ma piuttosto creative imprecazioni. Gli riusciva benissimo, fra le altre cose, di combinare santi e animali. Zoppicava, e teneva il gomito alto come il cannocchiale di un sestante. Buttai un occhio al tavolo della cucina: il giornale sgualcito e il sacchetto di carta pieno di pane parlavano chiaro. Ci vuole coraggio, mi dissi, Gli dirò che passavo per caso.
Ma lui sapeva del mio bluff, e per rispettare la mia pudicizia si fingeva sempre sorpreso, seppure di quella sorpresa che prova una roccia a mare quando viene sferzata dall’ennesima onda. Mi salutava sempre dischiudendo la bocca, un taglio approssimativo nella faccia di cartone rugoso. Lo raggiunsi presto, l’acqua nera sciacquava laboriosamente i bordi del porto, io percepivo la millimetrica sensazione che ogni secondo la terra sotto i nostri piedi si ritirasse. Il cielo sembrava una colossale finestra rossa aperta sull’acqua. Due o tre nuvole resistevano ancora all’incedere del tramonto, allungate per l’estremo sforzo.
- Salute Mimì. Voglio perfezionare il gioco delle nuvole coi miei figli. - Era quella la mia trovata. Lui di figli ne aveva avuti due, maschi, tutti e due nel continente.
- Che gioco?
- Il gioco delle nuvole. Che forma hanno. Giochiamo a chi si accorge prima che forma hanno le nuvole. È un bel gioco.
- Mah.
- Non trovi, Mimì? Secondo me è un bel gioco. Io credo che sia istruttivo, per dei ragazzi. Vedono che qualcosa si forma e si disfa, allenano il loro spirito di percezione, si abituano all’impermanenza.
- Vero?
- Sì, al fatto che tutto cambia, che dura uno due dieci secondi e poi sfuma via. E che ci sono forme che hanno senso e altre no. C’è tutto, il cielo è una tela.
- E non le impareranno nella vita, tutte queste belle cose?
- Appunto, imparano a guardare nel cielo, e ad abituarsi a com’è fatta la vita. - Trionfavo.
Proseguimmo a camminare insieme, ed ebbi l’ardire di prenderlo sotto braccio. Allora lui, che certamente aveva gradito il gesto, si fermò, come si fermano i vecchi che per controbattere vogliono che tu li senta bene. - C’è un problema, però.
- Ah sì, e quale Mimì?
- Hai buona volontà, ma lasci sempre le cose a mezzo. Tu così, i tuoi figli, li abitui a pensare che sono le cose che cambiano, e loro invece sono belli fissi a terra, coi piedi saldi e nuddu i po’ muovere. Tu questo esercizio, questo gioco, come lo chiami, a loro glielo devi fare fare ‘nta varca, nella barca. Accussì capiscono che le nuvole si muovono e cambiano, ma pure loro sono in balìa del mare. 
Quando concluse si ritirò un momento, come per verificare che quello che aveva detto coincideva con quanto pensava. Poi riprendemmo a camminare. Mi conduceva al bar, aveva voglia di un amaro, uno degli ultimi che riuscii a offrirgli.

sabato 18 febbraio 2012

opus incertum


sono arrivati i libri di papà. alcuni hanno preso una conformazione, si sono impilati quasi da soli, generando un opus incertum che non mi sembra più tanto provvisorio. ricordavo l'enciclopedia imago mundi, sono anni che ci penso. è finita a fare da fondamenta sulla destra di questa piramide. poi checov, dostoieschi, un sacco di libri francesi, e libracci di selezione o di parapsicologia che erano il mio timegate da ragazzo. il libro tibetano dei morti, il touring club, svetonio, i libri del suo liceo, con le raccolte di autori greci e latini e un curioso libro firmato mussolini credo sul perfetto fascista. io che abito in via dei tessitori, già mussolini - dico tanto per dire - ma lui è stato un balilla. Malraux che parla dell'indocina, un ricettario. poi i libri che ha comprato negli anni novanta e duemila, roba anche indecente. 17 scatole di cartone che sono piombate sul mio ingresso, e ho disfatto in un paio d'ore. squarciando i lembi di scotch da imballo che sembravano le bende di una mummia mi andavo ricordando che era un gran lettore, uno che amava i libri, che mi ripeteva frasi di quello che leggeva, che diceva da machiavelli il principio primo della prudenza è quello di non offendere i potenti, e che questo mi suscitava ribrezzo dai vent'anni in su, e lo disprezzavo già solo per questo. e mi ha insegnato il francese, a sei anni leggevamo insieme l'art de vivre longtemps, praticamente in contemporanea a tartarino di tarascona che è stato il mio primo libro italiano. e mi leggeva cose da vecchi, perché lui era già vecchio. l'art de vivre longtemps, un libro di medicina di fine ottocento. a un bambino di sei-sette anni. e poi da adulto mi rompeva i coglioni con carmina non dant panem mentre io annaspavo a ingegneria e prendevo qualche boccata d'aria migliore in conservatorio e scrivevo racconti che trovava (buon primo di molti) illeggibili e reintitolava I miei tormenti, perché lui solo questo ci vedeva. Lui che mi ha obbligato a leggere ippolito nievo alle elementari e ingoiare tre o quattro canti della commedia a memoria, a un'età che neppure capivo e che è quel ch'i' odo diventava che è quel chiodo sennò non riuscivo a impararlo. e il disprezzo con cui toccò il bigliettino in cui LVMH mi diceva che no, non ero adeguato a quel posto à paris, e lo sporcò quel bigliettino in carta filigranata che già odorava di lusso e che io ho tenuto come una reliquia. e lui che non mi ha insegnato a leggere veramente, e ho dovuto fare i conti con questo e lo faccio ancora. ecco i suoi libri, incerti, vari, segni di una vita lunga ma incerta pure essa. ecco il suo ritratto migliore, nel bene e nel male 

venerdì 17 febbraio 2012

Monsieur Hél

Entrai in quel caffè senza pensarci troppo. Avevo voglia di qualcosa di caldo che mi aiutasse a sostenere il gelido nubifragio che infieriva da ore sulla città e la vista dei tavoli attraverso le ampie finestre del locale era bastata a convincermi. Non appena mi fui seduto e mi venne servita una bella tazza di tè fumante, mi parve di trovarmi in riva a una spiaggia assolata.

Mi ero accorto subito di lui. A quell’ora c’erano si è no cinque persone oltre me, ed era l’unico rimasto con il soprabito indosso. I lembi del lungo cappotto nero, dalle spalle quadrate, quasi militaresche, scomparivano sotto il tavolo come si trattasse di una coperta adagiata sulle gambe. Dentro faceva molto caldo e anche io, come gli altri del resto, ero rimasto in maniche di camicia, persino con un certo compiacimento. Se ne stava ben dritto sulla sedia, come se aspettasse un’ispezione da un momento all’altro. Vigile anche in faccia, e io pensai guardandolo che un bel paio di baffetti appena grigi su quell’ampio labbro sarebbero stati alla perfezione.

Gli altri avventori andavano e venivano. Solo noi due restavamo. Io ormai solo per curiosità perché immediatamente, entrando, avevo sentito che qualcosa in lui mi avrebbe interessato. Di più: avrebbe interferito con la mia vita, e non potevo sottrarmi. Ma perché lui restasse ancora non riuscivo a capirlo. Per ottenere la benevolenza dei camerieri ordinava ogni venti minuti un caffè, un tè, un cognac, sempre con la stessa espressione, mai meno che dignitosa. In effetti la malizia del gesto stava tutta nell’interpretazione che io ne davo. Col senno di poi avrei dovuto definirlo piuttosto una macchina che obbediva a una serie di istruzioni a tempo. Nelle pause tra un’ordinazione e l’altra assumeva nuovamente quella posa rigida e impeccabile. Ogni tanto muoveva la testa, ma per lo più fissava dinanzi a sé, dandomi l’inquietante impressione che non stesse neppure pensando. Anche se provavo a fissarlo per molti minuti di seguito fingeva di non accorgersene e seguitava a guardare avanti come un bambolotto. Un grosso bambolotto molto ben fatto che non aveva alcuna coscienza di sé.

Ero così assorto che quasi saltai sulla sedia quando una bella donna, alta e ben vestita gli si avvicinò per chiedergli un’informazione che non riuscii a carpire. Gli aveva rivolto due parole, non di più, quasi certamente una domanda. Lui aveva voltato appena la testa e aveva sorriso, facendo appena un cenno di diniego. Un uomo gentile ma freddo. Dopo due o tre oscillazioni il cranio era tornato nella posizione abituale e la donna si era dileguata, senza particolari reazioni e facendo un bel po’ di rumore coi tacchi. Dovevo sapere di più. Guardandolo meglio, fissandolo, mi accorsi che tutta la barba tranne i peli sul labbro, era lunga di un giorno almeno. Una peluria sottile e non troppo scura, che però era completamente assente sotto le narici. Questo significava solo una cosa, e cioè che quella mattina l’uomo si era tolto i baffi. La considerai una vittoria, anche se non seppi utilizzarla subito a mio favore. Ebbi bisogno di passare all’abbigliamento per realizzare una teoria plausibile. Sforzando i bulbi oculari a guadagnare qualche diottria mi parve di scorgere dei capelli lunghi e biondi sul cappotto, in corrispondenza del bavero e della manica sinistra. Era un bell’uomo, certamente, degno di una donna affascinante. Aveva avuto da poco un incontro. Poi venne la vera rivelazione. Sul lobo sinistro c’era il segno di un’infiammazione, anzi proprio di una ferita che aveva avuto appena il tempo di fare la crosta. Gli era stato dato un morso, un morso doloroso e dal significato inequivocabile. Avevo sentito dire, più di una volta, come le donne scandinave, molto più focose di quanto si pensi, abbiano l’abitudine di mordere con gli incisivi il lobo dei loro amanti prima di lasciarli per sempre, come delle piccole tarantole addomesticate ma non per questo meno velenose. Ecco perché era tanto scosso. La sua bellisima donna del Nord aveva fatto di lui quel che voleva, e ora soffriva le peggiori pene. Povero sconosciuto, tutto tornava in maniera talmente esatta da non lasciarmi neppure il minimo dubbio. Quando si è traumatizzati fino a tal punto non si sente né caldo né freddo, si va in un posto e ci si dimentica persino di togliersi il cappotto. È naturale. E se poi passa una signorina, magari una di quelle che battono questo quartiere in cerca di clienti, è ovvio che la cosa non susciti altro che indifferenza. Soffriva per un recente abbandono, forse solo di ieri sera, e che aveva voluto rendere evidente anche al proprio sguardo tagliandosi i baffi. Magari come spesso accade era stata lei a dirgli “Fatti crescere i baffi, fallo per me. Fallo o ti lascio subito!”. La cosa mi parve talmente evidente che per un momento mi venne voglia di andare io stesso a consolarlo, io che di queste cose, ahimè, ero piuttosto esperto. Ma un attimo dopo pensai l’esatto opposto, ricordandomi che l’ultima cosa che avrei voluto in quelle tristi occasioni era di essere importunato. Così rimasi dov’ero, e lui al suo posto, imperterrito col suo dolore.


Era trascorso molto tempo senza che nessuno dei due avesse più ordinato. Nel caffè non restavamo che noi due e i camerieri, che si aggiravano sempre più svogliati tra i tavoli. Il tipo che mi aveva servito era impaziente che ce ne andassimo per dare l’ultima scopata e sistemare le sedie. Dall’occhiata che mi mandò sembrava avesse intenzione di ramazzare anche me. Mi accorsi che dal centro del soffitto proveniva un bagliore sempre più flebile. Una a una le luci venivano spente: doveva essere la tattica usuale per invogliare i clienti più ostinati ad andarsene di propria volontà. Ruotai il polso destro verso i miei occhi: erano le dieci meno dieci. Come avevo appreso entrando e gettando uno sguardo al cartello sulla porta, tra pochi minuti avrebbero chiuso il locale. Dovevo raggiungerlo, adesso, chiedergli tutto quello che mi sarebbe venuto in mente, a cominciare dal perché si era tolto i baffi e poi, senza fargli capire che avevo già compreso tutto, consolarlo non appena mi avesse accennato alla tragica storia d’amore. Forse sarebbe nata un’amicizia, di quelle che a volte nascono tra adulti colpiti da una disgrazia simile, e che si incontrano in una sala d’aspetto. Di donne il mondo è pieno, questa gliel’avrei detta in ogni caso, qualunque piega avesse preso il discorso. Nonostante tutte le riserve, compresi che avrei dovuto comunque abbordarlo. Mi ero ormai deciso a raggiungerlo quando improvvisamente l’uomo si alzò. Il suo gesto mi apparve così macchinoso e innaturale che rimasi sconvolto e non riuscii a muovermi. Per venire fuori dal tavolo, facendo leva sulle braccia, cominciò a esibirisi in una specie di danza goffa e rumorosa che scuoteva il tavolo ed emetteva singhiozzi metallici. Un cigolio che penetrava nelle mie orecchie fastidioso come l’urlo di un rapace affamato, mentre incapace di rendermi conto di cosa avevo davanti continuavo a fissargli la testa, ballonzolante come se fosse stata montata su una molla. Gettai uno sguardo disperato sui camerieri, che fecero come se niente fosse, come se si trattasse di una cosa di tutte le sere. Poi, sempre più incredulo, spostai gli occhi quel tanto che bastava e vidi: al posto delle gambe aveva due grosse eliche in acciaio che dimenava ostinatamente per tirarsi fuori da lì. 

venerdì 10 febbraio 2012

sei tu la tua luce

Tu sei la tua felicità
solamente tu puoi comprenderti interamente
sforzati con le dita di sgranare i grani di luce che conservi nel petto
procedi e rischiarati da te stessa