domenica 10 marzo 2013

Mimosi?


Sono col cane, attraverso la strada per entrare in uno dei bar in cui solitamente prendo il caffè nel giro mattutino. Il bar è gestito da marito e moglie, entrambi bolognesi. Si direbbe abbiano passato entrambi i quarantacinque. Lui è calvo, con i denti leggermente sporgenti che gli danno l’aria di un serpentello. Lei è bionda con gli occhi di un azzurro acceso, e dai discorsi che le ho sentito fare deve avere un bel caratterino. Quando lavora da sola ascolta musica da discoteca, sebbene a basso volume, e la canticchia anche. Radio Deejay è la sua stazione preferita. Parla sempre di serate, di feste, e di “gran balotta”, che è il modo che hanno i bolognesi per indicare il divertimento ma quello vero, quello un po’ pazzo. L’altra volta c’era una cliente con l’iPad  e lei sembrava molto interessata, come status symbol più che come oggetto tecnologico. Chiama tutti “avvocato” – il Tribunale è praticamente di fronte –, o prof, o con altri titoli a seconda del caso. Io comunque ci vado perché è di passaggio e il caffè quattro volte su cinque è molto buono, spesso con un retrogusto di mandorle amare, che a me piace molto e che mi lusinga la bocca per alcuni minuti.

Ci sono andato anche l’altro giorno, che era l’8 marzo. L’8 marzo è la festa della donna, questo lo sanno un po’ tutti, specialmente i maschilisti più violenti che non vedono l’ora di acquistare e distribuire quanti più mazzi possibile di mimose. Inutile dire che, come in qualunque altra città italiana, le code ai semafori e gli angoli delle strade si riempiono di ambulanti improvvisati – magari lavavetri fino alla sera prima – che cercano di piazzare il loro striminzito omaggio da 3 o 5 euro. 

C’è un tipo, a occhio un marocchino, vecchissimo, talmente incartapecorito da forse cinquant’anni di mestiere per le strade da sembrare finto, che i bolognesi conoscono molto bene. Non so come si chiami, o se qualcuno gli abbia dato un simpatico nomignolo. Tutti però di vista lo conoscono, perché solitamente si aggira per le strade carico come un cammello di oggetti di ogni specie, indumenti, ombrelli, guanti, ninnoli. Ti si avvicina e ti chiede: “Guanti? Calzi? Umbrelli? ‘ccendini?”. 

Il giorno della festa della donna è naturale che si adegui, e così fa capolino dalla strada anche sul caffè. “Mimosi, mimosi?” chiede proponendo la merce con un gesto brusco. È indeciso se entrare, soprattutto perché c’è Pamina, cioè il mio cane. Gli arabi detestano i cani perché li ritengono impuri. Da quando sono a Bologna mi è capitato non poche volte di vedere donne musulmane saltare letteralmente dalla paura alla vista del mio modestissimo canide, mentre i loro più virili compagni si allontanavano in fretta dichiarando di essere gravemente allergici al pelo del mio irsuto amico.

“Occhio che ti mangia, sai?”, gli fa il padrone del bar, ridendosela.
“Mimosi? Mimosi?”, continua quello, come se non avesse sentito. È un po’ spaventato, ma deve provarci, è più forte di lui.
I baristi e gli avventori, me compreso, lo guardiamo e sorridiamo, con malizia. È come se fosse un animaletto, e Pamina invece fosse umana, e fra l’altro tra gli umani buoni. Mi stanno per venire in mente certi dobermann neri, ma poi mi viene servito il caffè e ne sono entusiasta: è caldo, e profumato.

Finalmente il marocchino desiste. È molto piccolo, è un uomo davvero minuscolo. L’ho sempre visto carico di mille cose, ma ora che non ha con sé che quattro o cinque mazzolini assomiglia più a un uccellino che a un uomo. Un uccellino bruciacchiato dal sole, con una specie di piccolo fez in testa, appollaiato su un fantasioso albero di mimose. 

Appena si leva dalla vista i due cominciano a rimpallarsi alcune battute, del tipo "Certo che loro alle donne ci tengono, eh se ci tengono!". "Come no, da loro la festa delle donne è festa nazionale". Tutti noialtri annuiamo. “Comunque è uno che ha l’anima per il commercio. Se piove vende ombrelli. Se fa freddo sciarpe. È un genio”. L’altra dice “Com’è che lo chiamano, com’è che lo chiamano?”. “Comprami, anzi cumprami. Quello è uno che vende di tutto”. Ridono, ridono con un disprezzo che mi fa chiedere, in silenzio, quanto abbiano capito io da dove vengo. “Ah, quelli lì, coi cani, neanche fosse il demonio. Chissà poi perché”.

Una vecchia signora su cui il chirurgo per risparmiare deve aver usato l'attack anziché il collagene e che il parrucchiere circuisce spudoratamente da decenni mi chiede se può dare un pezzetto del suo cornetto al cane. Io ormai non mi oppongo più: “Faccia pure”, le dico “purché non ci sia ripieno”.

Il barista stravede per il mio cane, come quasi tutti i bolognesi. Dice che sarebbe un ottimo cane da tartufo, che mi farebbe fare i milioni. È un discorso che mi ha già fatto, ma non ricorda. Forse lo fa ogni volta che vede un quadrupede al guinzaglio, più o meno come Gatto Silvestro vedeva in Titti un pollo al forno già rosolato. Ogni volta aggiunge anche una cosa che deve aver letto da qualche parte: “Sai quali sono i migliori cercatori di tartufi? I maiaali!”. E si sbocca tutto per dirlo, perché il maiale è un animale speciale, onnicomprensivo, sacro in una maniera lercia, ma sacro. Poi spiega sempre che però i maiali non vanno bene perché i tartufi se li mangiano.

L’altra volta gli ho inventato che ho provato a farle fare la cerca, ad addestrarla anche, ma che poi i tartufi se li mangiava e allora niente. La storiella l’aveva divertito, ma questa volta ho un altro umore, e gli dico che comunque per addestrarli correttamente bisogna essere molto duri con loro, e che io sono contro ogni forma di addestramento coercitivo. Lui conviene, aggiunge che sì, lo sa, bisogna lasciarli di fame, dargliene anche, tenerli isolati nelle gabbie. Ha una faccia così sconsolata che per un attimo gli credo. 

Pamina è quella che è, quindi la signora del cornetto e dei capelli color pappagallo va in sollucchero per le feste del cane. Sono tutti contenti, il barista aggiunge che “Quello lì è proprio un gran cane”. 
Esco, saluto tutti. Si era creato un clima di conviviale complicità, sembrava di stare tra metronotte al rientro dal giro notturno, ma l’entusiasmo si stava spegnendo. L’ho capito e sono andato in strada. Il marocchino avrà svoltato l’angolo da un po’. Io ho un ottimo sapore di caffè in bocca. Dico qualcosa di superfluo al cane, che avrà capito sì e no le vocali, e riprendo il giro, pensando che una mimosa, e neanche un milione, hanno mai fatto primavera.

domenica 14 ottobre 2012

Ho disposto ogni cosa




Ho disposto ogni cosa, ho fatto in modo che gli oggetti
che affollavano la nostra stanza
stessero alla giusta distanza tra loro e coi muri, e da noi.
Le superfici si guardano, quiete, come dentro un tubo sottovuoto
gli atomi di ciascuna cosa, le molecole possono stiracchiarsi
distendersi al limite delle leggi fisiche. Presto finirà.
Intanto ci sono i tuoi occhi, anch’essi convergenti, quasi serrati quando 
mi guardano così da vicino. A una tale distanza non c’è più colore,
né iride né pupilla, ma solo sorsi di mare più calmo e profondo.
Un bacio, un bacio solo può sciogliere questo pericoloso incanto, mostrando
l’orizzonte che ci è attorno, linea che avvolge come una delicata promessa
che dobbiamo avere l’ardire di tornare a guardare.

domenica 30 settembre 2012

tolgo i colori


oggi dalla immagine che ho di me stesso 
tolgo il blu, il viola, il colore della lana naturale.
tolgo le tinte del marrone, la consistenza dei tessuti,
spingo via coi palmi la pelle dalle braccia, dalle gambe
lascio che la pancia si gonfi a dismisura, inghiotta
il mondo: voglio liberarmi, impedire che questo 
schermo, bello o brutto che sia, simpatico o scontroso
amato e odiato, afflitto dalle piccole tragedie dell'indifferenza
continui a spacciarsi per me.  
così, una volta spogliato da me stesso, posso finalmente 
percepire tutto ciò che è intorno: non ho paura 
di dire che una nuvola riverbera di vita e ci apparteniamo
quanto con gli occhi ancora incerti di mia figlia.
Di quell’unico mare lattiginoso, opaco e dotato di una vita liquida,
di quell’unico mare che ora sento 
siamo tutti emergenze, momentanee e diverse appena solo nella forma
inconcepibili una senza l’altra, ugualmente incolori
prima di vestirsi delle tinte del mondo.

venerdì 14 settembre 2012

voracità di astronauti




questa sottile, ingannevole irrequietezza
la stessa di quando, di un autore di cui stavo leggendo qualcosa
e di cui mi stavo innamorando
cercavo già altri testi, altri capolavori, rovistavo
come un botolo cieco 
molto prima di essere giunto 
alla fine di quel primo appuntamento

voracità di astronauti, che soffiano sulle loro bandiere
a puntellare orizzonti irrisolvibili
che mischiano le proprie spore ad altre infertili
dimenticando che ogni capolavoro è già perfetto 
nel giardino di casa,
se solo ci si fermasse a guardarlo

martedì 11 settembre 2012

Siamo noi il paesaggio


siamo finalmente arrivati. c’è ancora un poco di affanno
nel tuo corpo, che si flette assecondando il respiro,
aprendo e chiudendosi, mostrando e coprendo la pancia
come un uovo che fa capolino tra le piume.
poi mi chiedi di dimenticare lo sguardo, e di lasciare
che siano questi alberi e quest’acqua a guardarci.
siamo noi il paesaggio, mi dici, senza che io capisca subito.
il cane è felice, inizia a correre per il bordo del lago,
non lo vedo quasi più, sento la consistenza festosa e variopinta della sua libertà,
di quello che prova adesso inondato da odori di ogni specie
galoppando festoso in ogni direzione. 
ti siedi, con un po’ di fatica, incroci le gambe
ti lasci guardare da tutto questo:
stiamo per raccontare una nuova storia
che comincia con il tuo ombelico
e per la prima volta nella mia vita non dovrò cercare le parole.

venerdì 7 settembre 2012

Il pacchetto mangiatoia



Una clinica maternità americana – più precisamente con sede alle Seychelles, ma aperta da una coppia di intraprendenti californiani – ha deciso di fornire alle partorienti diversi pacchetti all inclusive. Tra le numerose possibilità c’è anche quella di partorire in una mangiatoia, con tanto di bue e asinello. All’esordio del travaglio un aereo sorvolerà il cielo emettendo una particolare luce atta a simulare la stella cometa mentre, una volta completato il parto ed effettuato il primo bagnetto, tre individui piuttosto pittoreschi si presenteranno a rendere omaggio al neonato. Per quanto riguarda i doni che questi recheranno è possibile deciderli con il dovuto anticipo, attingendo a un’ampia scelta di gadget disponibili a catalogo. Questo pacchetto al momento è disponibile solo per neonati maschi, mentre la madre, se lo desidera, potrà indossare un manto bianco e azzurro in ottimo cotone indiano che potrà conservare come souvenir, previa trattamento lavanderia. A richiesta è disponibile anche un completo da falegname giudeo del I sec. a.C. per il padre del nascituro, o compagno che sia. Il quale però, rimane in ogni caso figura del tutto marginale.

martedì 4 settembre 2012

Purissima luce


È finita la pellicola, in questa minuscola sala di proiezione. Senza che me ne avvedessi gli altri spettatori hanno abbandonato le poltrone infeltrite, per cercare fuori, tra le luci cittadine, il senso di quanto hanno appena visto. La macchina continua a girare, ma a vuoto, perché il nastro di celluloide è terminato, e forse si è anche sfilato dalla bobina, almeno a giudicare dal ticchettio irregolare ma periodico. Forse è successa qualcosa, perché anche l’operatore è sparito. La luce, bianca, nettissima, scalda lo schermo di fronte a me in un riquadro che percepisco solo superficialmente rettangolare, e che sembra invece contenere tutte le forme e tutte le proporzioni. Mi perdo veramente in esso, assorto, compiuto senza memoria e senza desideri. Perché dovrei tornare là fuori? Capisco il senso soltanto ora, e me ne lascio cullare. Ciò che chiamiamo esistenza è un film, noi siamo soltanto la purissima luce che lo rende visibile.

sabato 25 agosto 2012

Un po' d'ordine, prima


Bisogna mettere un po’ di ordine nel mondo prima,
prima che venga Sofia e si accorga di quanto è doloroso tutto questo,
di quanto le tenerezze che si fanno ad un cane 
possano essere segno di una solitudine agghiacciante
perché in molti fanno le feste alla nostra Pamina senza neppure guardare noi negli occhi,
e accorgersi che hai un bellissimo pancione pieno di vita
che fiorirà da un momento all’altro.

Come farò a spiegarle che la smorfia della dolcezza, 
che l’amore con cui tutti s’impiastricciano il volto
è piatto e stropicciato come le sagome in cartone da vetrina oviesse, ammucchiate per strada 
prima che passi il camion?
Bisognerebbe mettere un po’ d’ordine prima, ma è faticoso, è realmente fuori misura.
Non possiamo andare da tutti e chiedere un po’ di rigore e sincerità, 
un po’ di misura affinché l’amore non si trasformi in una caricatura di se stesso.

Bisognerebbe, certo, ma non solo non ne abbiamo le forze, 
ma neppure il diritto. Sono passati troppi anni, e per fortuna,
da quando pretendevo di guarire il mondo.
Però una delle prime cose che cercherò di mostrare a Sofia,
sarà la differenza tra gli spasmi di una patetica richiesta
e il vero amore, che è sempre silenzioso e raggiante,
sopra ogni cosa composto e incapace di chiedere.

mercoledì 25 luglio 2012

La generazione degli schermi


Immagini Dio chinato su uno schermo
che sposta le sorti, che affastella angeli in stack
che è al cinquantasette percento di un’anima
che apre finestre per controllare la felicità dei suoi
o a che punto sta la faticosa consapevolezza delle molte creature?
Accentriamo ogni cosa a venti centimetri dai nostri veri occhi, 
accumulando le forme e deliziandoci di questa micragnosa onnipotenza
e ci illudiamo che tutto sia disponibile e che poco ci manca che si possa toccare
solo perché ci appare dentro un’enorme pupilla rettangolare
comprata in qualche abbagliante emporio.
Siamo solo la generazione degli schermi, quella che crede
che bastino un po’ di pixel e una connessione 
– mi raccomando veloce! –
per realizzare l’onnipotenza
e che confonde un banale visore per l’autentica realtà.

lunedì 9 luglio 2012


Sento queste braccia che trepidano, perché percepiscono già un dovere e un senso nuovo
queste mani, si preparano devotamente a sorreggerti contro il mio petto
accudendo per ora una bolla d'aria, che a me pare più calda e che respiri.
Il tuo minuscolo corpo sul mio, sarà una lumachina addormentata
su un albero, a metà del cammino verso la rivelazione azzurra del cielo
e a quel velo tessuto di rondini, guarderemo entrambi e di notte
imparando a ricomporlo per costellazioni.
Ogni linfa sia tua, ogni singola ruga serva a sostenerti e siano gradini le mie imperfezioni.
Non uno dei gesti che d’ora in poi compirò, potrà fare a meno di te.

(alla mia lumachina ventura)


venerdì 6 luglio 2012



Il ratto


- mi parli del suo mondo.
- il mio mondo è piccolo. lontano. ma presente.
C'è un efebo; se mi concentro posso scorgerne il profilo, una linea più scura che si distingue su un fondo animato e incolore. I suoi occhi scrutano alla mia sinistra, credo mi ignori del tutto. C'è un albero, come in tutti i sogni, ma le sue radici non sono radicate in alcun posto: si direbbero rami all'ingiù. C'è la porta dei leoni, la sabbia che è terra attorno, resti di amori troppo violenti di tanto in tanto. Un vento forte che lascia immobili le cose e smuove solo i miei pigri capelli. Non posso dirmi né uomo né donna né, forse, creatura animale. Eppure sento nelle mie vene un istinto forte; la vedo, alta, i capelli e le labbra scuri, gli occhi nocciola come il fango – che una leggenda canta sangue della terra –, e contornati d'azzurro, che è la sostanza del cielo. in me è la perfetta certezza che quella sia la mia donna, che in lei scorra la stessa linfa preziosa che in me tracima di continuo. È di una bellezza che non riuscirò mai a comprendere, i suoi seni tendono una vesta chiara leggera come dita delicate che la stiano tessendo. Ho sempre vissuto in compagnia del pensiero di lei, fremente per quell'attimo in cui anche le me pupille avrebbero assaggiato; adesso posso davvero vederla, ed è come se un grande re mi avesse chiamato al suo cospetto. Grande potrà essere il mio piacere. Si avvicina a me, scivolando sui granelli di deserto di cui è figlia, le braccia  distese nobilmente scendono come gioielli lungo i fianchi. Si ferma, abbraccia un violino che era già stato di faraoni; veste l'archetto dei suoi crini lunghissimi, sistema le dita sul manico sottile che accoglie i suoi lievi polpastrelli come un fiore in lunga attesa dell’ape. Adesso intona un canto di morte dolcissimo: sciogli le tue carni nel sangue, il tuo cuore negli affetti; lascia ch'io beva di te. Berrai mia diva, ti nutrirai di me. vieni e io sarò l’ambrosia di cui si cerca invano il sapore. L'efebo, l'efebo è tornato. Intravedo una schiena bianchissima, possente, una tela di linee di forza, sono certo sia sua. L'efebo si muove, senza fretta, si direbbe che scorra senza tempo. Io tendo il mio cranio di morto impotente, già crepato dalla secchezza, a quella statua viva, a quell'idea magnifica che si muove e respira completamente soddisfatto di ciò che già è. È già tra le braccia della mia donna, e le loro nudità premono contro la terra. Mi volto: un piatto tra le mani ha inciso un aulo; lo imbocco, incerto. Salgo  su una pietra e m'improvviso pastore: mansuete pecore, sapete ove è l'erba più fresca? Cadono lacrime mentre i suoi occhi stravolti di piacere mi cercano. Scivolo da quel masso su cui mi ero detto capitano di greggi di nuvole, e cado in ginocchio. Strappo dell'erba, come la bevo, intera, così per com'è, perché torni sana e verde a quella terra domani. Escrementi produrrò in abbondanza, per nutrire il mondo, per ripagarlo di quanto m'ha dato. M'improvviso talpa, ma solo per scavarmi la fossa. Che sia bella, piena d'aria e vermi da mangiare. Navigherò da morto, decomposto saranno mille le mie parti, tra gli spazi minimi della terra grassa. Diverrò radice e fogna del mio animo in pezzi, e schiaccerò gli insetti ingordi che soli conoscono il mio nome, e costruirò una reggia sotto i suoi piedi, immensa perché ovunque si trovi io possa essere sempre sotto di lei, e percepire il profumo del respiro. I suoi polmoni, le sue narici sanno di lei, del suo sale ha gusto il sudore che scolerà sulla terra, e sarà quella la mia unica fonte: io berrò per amarla. E i suoi sussulti, le sue fatiche d'amore per altri, io ascolterò in silenzio straziando le mie labbra e cercando in me il suo corpo. Ma stanco un mattino riposerà il mio efebo, disteso sull'acqua sottile come orchidea. e lei veglierà un poco quel piccolo dio, solo nella sua bellezza, che non è solida, non è eterna, benché concessione divina. Nessun dio è eterno, ma anche solo per un giorno risplende di tutta la bellezza dell'universo. E infine anche lei si assopirà, vinta dai più dolci dolori. Spezzerà i capelli in un tonfo ovattato, trarrà a sé le ciglia, come petali, e lo sguardo riposerà dietro di essi, compiacendosi di qualche intima scoperta. Nel silenzio allora io trasuderò dalla terra, pezzetto dopo pezzetto, e il mio spirito che era con lei investirà il mio corpo esanime come una folata di scirocco, ridonando la vita. La sua nudità mi spaventa: potrei graffiarla con la mia barba dura, il mio corpo duro come la terra di cui mi sono nutrito. Ritorno un momento all'ombra e li vedo da lontano. Un fuoco mi brucia la gola e il ventre, allora, se li penso ancora vicini. È bella, è la mia donna, ma non è mia. Le passo un braccio sotto il collo, e con l'altro le reggo le gambe: l'ho presa. Ancora dorme e non sa. Una ghirlanda la copre, perché il desiderio non possa turbare il viaggio. I miei piedi si sono fatti alati, le porte del mio castello ci aspettano dischiuse.

martedì 5 giugno 2012

prima ricorda


hai scoperto che l’oblio è angoscia.
questa sera, prima d’incontrarci ancora
ricorda ieri che odore avevo,
in che direzione si smarrivano i miei occhi.
Solo così potrai invitare entrambi
alle virtuose acrobazie
escogitate dai corpi contro gli attimi evanescenti

martedì 3 aprile 2012

embrioni

ieri notte, prima di darla del tutto vinta al sonno, ho fatto uno dei pensieri più belli degli ultimi tempi. L’espressione corretta è mi ha visitato uno dei pensieri più belli. Sto leggendo Jean Klein, in questo periodo, e le suggestioni, gli stimoli, le proposte di pensiero sono moltissime. Adoro leggere ciò che è denso, ed è seminale: mi dà la sensazione di ingoiare grumi di vita, di accrescermi e di coltivare un'amicizia. Jean Klein tiene sullo sfondo la teoria karmica, di causa-effetto e, a debita distanza perché non-interessante ora, anche quella della reincarnazione. Non ci interessa, in effetti, indagarne i congegni e ridurre questo meccanismo ad algebre spirituali. Sarebbe un modo diverso e snob di pensare alla carriera e al successo. Però una cosa che ha detto, in proposito e relativamente en passant, mi ha illuminato. L’idea che noi scegliamo i nostri genitori, l’idea che si vada a visitare qualcuno perché è affine. La trovo una cosa sconcertante, per la bellezza silenziosa che emana e per il concetto di vita che insemina altra vita, del puro che si innesta nel travagliato dal quotidiano: si radica sovvertendo le nostre abituali gerarchie e si espande appunto rovescando ogni cosa, mettendo noi a testa in giù. Io ieri notte ho visto questa animula, che proviene da chissà dove, che è eterna ed eternamente sorridente, che sceglie di incarnarsi in una forma fisica, fatta di una-due-quattro-otto cellule e via via. E lei ha scelto, per ragioni imponderabili da parte di un’algebra qualsiasi, di prendere questa forma e di somigliare a qualcuno di già esistente. Scegliersi i genitori, e penso a come è accaduto di scegliere i propri. Vi era un’affinità da prima, da prima che fossimo addirittura concepiti. Crescendo, diventando sempre più se stessa, questa animella forse imparerà un giorno a riconoscere una tale abbagliante verità. Niente colpe originarie, niente peccati, ma la scelta di uno spirito libero, la responsabilità immensa e lieta di un essere che forse un giorno riuscirà a scrollarsi tutti gli atteggiamenti e le pose, e tornerà a percepire quella pura bellezza che era e che è.
ps. È molto probabile che le recenti cronache sugli embrioni del San Filippo Neri abbiano dato un contributo a questo pensiero.

lunedì 26 marzo 2012

per riprendere domani

segno coi baci sette punti sul tuo corpo. da essi, domani, riprenderò ad amarti

ancora sul silenzio


Ancora sul silenzio. Jean Klein racconta in un'intervista come nel corso di un abituale spettacolo Nō il pubblico applauda con veemenza a conclusione delle azioni più memorabili. Ma quando le ultime comparse escono di scena, segnando la fine dello spettacolo, regna il più rigoroso silenzio. È il silenzio che permette al pubblico - e forse anche alle comparse - di rientrare in se stessi. Questo mi pare molto bello e significativo. 

non credere a chi ha paura del silenzio

Lo vedi, si amano, non c’è dubbio, ma ricordano i pezzi sgargianti delle sorprese kinder, che chissà quanto tempo hanno passato da soli al buio nell’ovetto giallo, e aspettano con la tipica avidità della plastica stampata a milioni le mani goffe di un bimbo qualsiasi per combaciare. Una volta assemblati, come coppia e come ditta, possono tenere banco, e ci raccontano in versi questa loro storia, vicenda di esilio volontario dalle luci, in cerca di un eremo campagnolo che è la succursale senza velluto di un teatro. Festeggiano, di continuo, festeggiano noi, festeggiano loro, siamo tutti ospiti. Sembra di stare al compleanno di un condannato. Come posso credere a chi ha tanta paura del silenzio?

venerdì 23 marzo 2012

Ci pensi?

scelgo un bar un po’ più lontano. mi metto in coda, brioche ai 10 cereali (esisteranno davvero? sono chimere della monsanto?) e caffè macchiato: qui lo fanno buono, con tanta schiuma e le tazze un po’ sguaiate, particolarmente disponibili all’abbocco. la glassa che lega i semini della brioche è un benvenuto alle papille decisamente gradito, si frantuma e ritorna ad ogni atto masticatorio, come un ritornello sempre piacevole, tipo ballo del quaqua. Avevo già notato la cassiera, una donna bella, con gli occhi azzurri e le borse di chi è dalle cinque al lavoro. la divisa nera le dona, ha i capelli di un biondo appena ritoccato legati in una coda. tutta la faccia è stanca, ma mantiene il decoro di chi deve tirare almeno fino alle due. Sono a metà del mio caffè quando le si avvicina un avventore, un tipo da un certo ingombro volumetrico che mi costringe a spostarmi e che ordina qualcosa sottovoce. Si avvicina proprio a lei, si sporge, le chiede di fare altrettanto in modo che l’apparato fonatorio di lui le appiccichi questa cosa segreta quasi proprio sulle orecchie. Non lo guardo nemmeno, non mi va di voltarmi, sento solo la sua voce. Ha una parlata appiccicosa, sempre sottovoce, poi tornano eretti entrambi e lui finisce di ordinare, un bombolone, ‘o bombolone, e un cappuccio, ‘o cappuccio. E poi, aggiunge Ci pensi?, ci vuoi pensare? Dài pensaci, tanto io ho già una moglie e due amanti, ma di lavoro ne posso ancora prendere. Io devo girarmi, devo vedere com’è fatto. A ridosso dei sessant’anni, facciamo cinquantacinque, brizzolato sul bianco, naso a patata carnosa, occhiali di metallo, giacca pied-de-poule, jeans nuovi e stretti, scarpe nuove e alla moda. Dalla vita in giù è giovane, anche perché le gambe sono magre. Sopra è muffa. E lei? Ci pensi?, le continua a chiedere. E lei dice Va bene, senza velleità di difesa. È stanca, ha attaccato alle cinque, ma dice va bene, con gli occhi bassi. Mi fa ribòllere1 il sangue (lo scrivo così, alla siciliana, perché il sentimento è genuinamente siculo e per un momento mi viene voglia di fare il Tancredi) il fatto che non gli arrivi da nessuna parte un ceffone. Non è la combinazione che abbia una moglie e due amanti a darmi fastidio (ci mancherebbe, se sono felici tutti non c’è niente di meglio). È l’evidenza che lei sia stanca, lavori, abbia quelle borse gigantesche, e lui se ne fotta, anzi pensi sopra ogni cosa a quietare il tremolio del proprio prepuzio con quest'altro corpo, senza un briciolo né di dignità né di - peraltro ridicola, ma almeno di qualche possibile divertimento - galanteria. Ora che la guardo meglio è proprio stravolta, le guance sembra che stiano cercando un modo per scivolare sotto la mandibola, pur di smetterla con questi assurdi sorrisi faticosi da cassiera. E imbarazzanti. Lui insiste, ancora, fa il satiro. Ci pensi? Va bene, ci pensa, lei dice che ci pensa. e abbassa gli occhi, pensando che alle due, quando torna a casa, deve farsi lo shampoo.
1da rivùgghiere

venerdì 16 marzo 2012

impassibile e infinito

il più grande insegnamento della matematica è che una frazione di infinito è ancora infinito. per questo una forza d’animo, un amore, un sentimento qualunque che sia veramente smisurato, non accetta le riduzioni di un’evenienza, ma continua a dilagare, impassibile e pieno.

lunedì 12 marzo 2012

l'aria è utile

l’aria invece lavora sempre, lo vedi da come consuma il soffitto specialmente, che ora che quasi siamo in primavera spella come un anfibio di smalto. le croste di calce si sporgono, fremono per il solletico della gravità, giocano che facciamo che siamo stelle su un precipizio galattico. Quindi l’aria giova a qualcosa, specie quando inventa e predispone mondi, ed è bravissima a riferire di molecole anche molto lontane. È proprio utile l’aria, a differenza di quel che si crede, specie quando non viene succhiata a tempo, e sciupata per gonfiare dei corpi.

domenica 11 marzo 2012

fiaba


Alto alto. E poi lui per dirle quanto era bella è andato fino in Oriente, si è legato alla cintola un tramonto e gliel’ha portato fin sotto la finestra.





l'immagine è presa da qua

venerdì 9 marzo 2012

l'intervista

“Era un tipetto simpatico, ma aveva poca esperienza. Tra le prime cose mi chiese chi fossero i miei Maestri. Io gli risposi, con qualche esitazione, con i cognomi della mia maestra alle elementari, che stranamente ricordavo meglio, e poi le prof alle medie e al liceo. Di addentrarmi per i meandri dell'università non mi parve davvero il caso, anche se per un attimo il nome del correlatore della tesi mi parve intonato alla sua bizzarra camicia a righe color ocra. Lui pizzicò una bretella facendola vibrare come l’elastico di una fionda a salve e tornò alla carica: - Ma intendo i grandi Maestri, i grandi letterati. Cervantes, Dostoevskji, Flaubert.
- Non oserei - mi ero opposto io.
- Ma tra i moderni, almeno. Pasolini, forse. Almeno Morselli, mi pare un riferimento chiarissimo. Certe sue pagine… -. Le sillabe cominciavano a scarseggiargli. - Io devo pur scrivere qualcosa. Tutti hanno dei grandi Maestri. Tutti fanno sempre dei grandi nomi.
- Be’, allora se proprio devi scrivi Gesù Cristo. Gesù è stato un vero Maestro per me. Infatti ho letto almeno un paio di volte, da capo a fine, i Vangeli, e qualcosa, anche senza volere, devo averla rubata.”

dal racconto Il bamboccione

giovedì 8 marzo 2012

l'homopatico

tiriamo le somme: l’homopatico, detto anche la cura del simile - cioè il mio romanzo ronzino - non è arrivato neppure in finale al calvino. e invece io me l’aspettavo, pensavo che almeno lì. Niente. è ovviamente il caso di farne una tragedia, ma di quelle tragedie risentite e dignitose che mi devastano la cloaca (lo spazio tra la gola e il culo) in questi ultimi tempi. Sono così, per ora: fuori impassibile, dentro marcio. Passerà anche questo. Presuntuoso, un poco, lo sono. Vanitoso pochino, o almeno ci lavoro cotidie. Il mio sentimento è una specie di torta salata e malcotta impastata con delusione e stupore. Ci sono nella pasta bolle di stupore ovunque: un emmenthal che è un miracolo se non esplode. Io proprio, io proprio non mi capacito come il libro non possa piacere. Non ho voglia per ora neanche di sentire la motivazione, l’eventuale scheda che avranno redatto. Dirà le solite cose: la trama non emerge, la narrazione non scorre, il linguaggio è fine a se stesso. Già lauro zumma, esimio talent scout, mi aveva fatto notare con virile garbo l’impubblicabilità del tomo. C’ero rimasto male, ma mi sono detto tanto prima o poi a qualcuno dovrà piacere. E invece no, non piace che non piace. Ma diciamo la verità: la cosa più drammatica sono i clara signa. Cioè i segni, i segnetti, le mie fissazioni nevrotiche che m’avevano annunciato se non il trionfo almeno un’acclamazione: tutti sontuosi treni lanciati lì dove i binari finiscono. E ci sono io, seduto per terra, che li guardo deragliare e perdersi, rovinati. Questa è la cosa terrificante. Perché se non c’è alcun senso, destino, et similia, se io - e quindi anche tu che leggi - non siamo nient’altro che le nostre quattro cose, allora c’è solo quello che vedi, cioè un emerito, squallidissimo niente.

martedì 6 marzo 2012

Il dono levigato

hai curvato uno specchio fino a trasformarlo in ventre. Ora ci galleggi dentro, illusa che questa sia protezione più che sufficiente, e che se tutto s’infrange, all’improvviso, non è il caso neppure di soffrirne perché tanto tutto finisce.
Quell’altra creatura, che non conosce spigoli, gioca come può. È un cortile abbandonato, su cui vigila un riflettore lunare: si riempirà le tasche di polvere e s’imbiaccherà le piccole mani come quelle di un santo che lavora.
Viene, mi porta una delle pietre migliori, scure e levigate fino alla lucentezza. È il suo dono, il mio fardello: un peso adeguato perché lui resti ancora ragazzo.

lunedì 5 marzo 2012

clara signa

me lo ricordo dal de bello gallico (ma come è possibile direte voi che il de bello gallico parli della morte di cesare? e intanto il ricordo s'è aggrumato lì e io mica lo posso scrostare, poi finisce che muore: forse erano state due interrogazioni vicine, non lo so), l'avrò deformato cento volte in memoria, ma mi ricordo che clara signa avevano annunciato al pugnalituro che avrebbe fatto una brutta fine. i corvi, e poi la mattina non si voleva alzare, non ricordo con esattezza, sto mischiando tanti di quei racconti suoi e di altri che non vale neppure la pena rimboccarsi le maniche e seccarsi i polpastrelli di polvere tra uno svetonio e l'altro. fatto sta che a me sono rimasti i clara signa, quei segni impercettibili e chiarissimi che mi danno una mano. dei ching che vengono risucchiati dal vortice di un lavandino, mettiamola così, perché così li vedo. e però io ci credo, il lavandino che si svuota e come si svuota io lo guardo perdavvero. ognittanto. è l'ultimo rimasuglio delle mie credenze, non so neppure se se ne andranno mai, anche se ora passo gran parte del tempo a ridacchiarmela, a svuotare la mia caverna egoica [a proposito, vi prego, seguitemi ancora un po' di là che poi torniamo: sabato ho goduto autenticamente: di seguito su radiotre lezioni di francesco antonioni sugli studi di ligeti - antonioni è bravissimo, altro che bietti che non suona ma zappa il pianoforte e ha la voce e le espressioni di filini, il geometra -, e poi a uomini e profeti massimo cacciari che parla di san francesco: è lui che ha citato la caverna egoica, quindi questa digressione la dovevo]. oggi è il compleanno di mamma. cioè sarebbe stato il compleanno di mamma. finirà che l'associo con lucio dalla, e che ci vuoi fare, è pure normale. siccome sono in fondo superstizioso, come lo era lei, con quella sua religiosità campestre, fatta di altarini di pietra votivi e pagani, con quelle sue preghierine e i riti che non appartenevano a nessuna confessione di preciso, se non quella di una contrada oscura benché abbacinata dal sole - è questo la sicilia, oscura benché abbacinata dal sole, cotta come un mattone di fango e nessuno mai potrà convincermi del contrario perché in quella terra c'ho lasciato molte linfe e qualcuna ne ho pure succhiata -, siccome sono superstizioso per tre volte, per tre volte siamo andati con ale in piazza maggiore e per tre volte i megamplificatori diffondevano le note di cambierò, di lucio dalla, lucio dalla che piaceva tanto a mamma mia (questa è divagazione degregoresca, direbbe filippolaporta ma mi aiuta a chiudere il signum). Al punto che abbiamo fatto un test, per vedere se c’erano solo quelle tre o quattro canzoni nel nastro, e siamo tornati così, all’improvviso, in piazza maggiore, gli abbiamo fatto l’agguato. Ma, ma la canzone era un’altra, prova questa che il Cambierò era un clara signa. Ecco come funziona. Dalla che muore, il suo compleanno, mia mamma il suo compleanno, cambierò: clara signa. Si vede che dovrò cambiare davvero. Ora, siccome io aspettavo una notizia, aspettavo anche un Clara signa che almeno mi anticipasse qualcosina. La notizia però non viene. Non disperare. E però se non viene non viene, siamo quasi oltre tempo massimo. Fose il Cambierò voleva dire che cambierò e non aspetterò più notizie del genere. Cambierò talmente che quel cambiamento che aspettavo, quella trasformazione radicale non mi dovrà mai più riguardare. Ok, sono pippe. Mi fermo qui con buona pace di Cesare e soprattutto di Filippolaporta. 
E pazientemente, questo senso di attesa è meglio che lo sgrani come le reti un pescatore, alla sera, con le gambe lunghe e la schiena dura, spalle al paese, e lo lasci riposare per quello che è: fili intrecciati e avanzi di mare da togliere.

venerdì 2 marzo 2012

l'ultimo scrigno è un mollusco

in quello stato sospeso non trovavi nessuna delle due sillabe pertinenti. come uno scioglilingua arrugginito ti inceppavi ora sul sì ora sul no, mentre al fondo sentivi che il decidere non è un privilegio che ti sia mai spettato. E così hai aperto al mare la tua casa, lasciando che s’inondasse nel fragore della volontà altrui, scippandoti i colori umani che ancora conservavi, sospingendo il tuo piccolo respiro fino alle soglie di un mollusco, l’ultimo scrigno che ora ti rimane

mercoledì 29 febbraio 2012

assapori la mancanza

che amore indirizzi all’amato che sfugge, che tempo dài a un momento che non viene? è il segreto cavo che ti leviga il petto, consunzione che visiti ogni volta quando ti è concesso e cui pure ti imponi di non concedere alcun nome. La mancanza del riconoscervi, lo scivolare ai margini è duro come una rotaia che non si vuole piegare, non vuole giungere in alcun modo, ma gira gira e tu sopra come un carrello dal destino ininfluente. Ti rimane quel po' di vento della corsa, e il dolciastro e denso affanno, la stanchezza inane e liquorosa che già hai preso, per metonimia, ad assaporare.

lunedì 27 febbraio 2012

il piccolo Doinel


sul 93, il bus che prendo il pomeriggio per granarolo, c’è un ragazzino di seconda terza media, una creaturina alta sì e no due volte il suo zaino. Sale con me, gli do sempre la precedenza, così posso guardarlo da un numero buono di angolazioni. Assomiglia ad Antoine Doinel, ma proprio quello dei 400 colpi, quello per così dire originale, prima che si viziasse di narcisismo e finisse col non sapere più che farsene dell’amore di quell’angelo di Christine, Christine Darbon. Questo scricciolo spaurito se ne sta nel mezzo del corridoio, con aria fiabesca, spremuto dalle pance e i seni e le tracolle dei grandi e anche di altri ragazzi che sembrano tutti più grandi di lui, e pure la borsa che gli si è arrampicata sulla schiena, con quelle bretelle nere e malamente imbottite, sembra un grosso ragno che vuole farlo finire col sedere a terra. Un paio di volte sono stato tentato di sfiorargli la testa e dirgli Ragazzo, è meglio se lo posi, oppure chiedergli se lo voleva messo in alto, nel portabagagli accanto al mio, anche perché così dà pure intralcio agli altri. Ma io sono sicuro che quello zaino pesa perché dentro c’è del metallo, è un ragazzo sveglio che cerca di non destare sospetti, si mette quell’aria lì, da ingenuo, da spaurito di proposito, e invece dentro ha una specie di mitra smontato che deve portare da qualche parte. Stanno preparando un esercito, dopo Granarolo, c’è anche un bunker segreto, e un pezzo alla volta lui porta tutti i pezzi, perché devono montare un cannone gigante con il quale spareranno su Bologna, o Padova, non so, del resto ancora gli ordini sono imprecisi, ma certo dove si annidano quelli più alti, quelli che in autobus, per esempio, rendono l’aria che non si respira. Per questo lo lascio stare, e mi limito a buttargli un’occhiata ogni tanto. Così, giusto per controllare che non tiri fuori il mitra e faccia una sciocchezza.

giovedì 23 febbraio 2012

amici e nemici

no, no per favore. non spulciare le loro biografie, non cercare i sagittari e i saturni nella data loro che collimino o sfreghino coi tuoi, non pensare che siccome è nato lì, è di lotta continua, o di panorme, o di cielle, cambierà qualcosa. prendi solo le loro facce, guarda le loro facce. E poi, ammesso che senti, dimmi cosa senti. Vale solo quell'onda grigiastra/azzurrina che torna, come una melodia sommessa suonata tra sopracciglia e mento, con l'aiuto delle piccole rughe attorno agli occhi - magnifici risuonatori. Il resto è il calcolo della scorza umana, destinata a leccare terra alla prima pioggia: è qualcosa di tremendamente volgare che non ti meriti. né tu né un'altra

martedì 21 febbraio 2012

Io ti voglio felice

Io ti voglio felice.
Anch’io mi voglio felice.
Ne sei certo?
Certo che ne sono certo! È perfino banale.
Non credo, stai attento a dire queste cose. È più facile volere il bene degli altri che il proprio.
Che assurdità! Tutti vogliono il proprio bene. Sta scritto anche nei libri: Ama il prossimo tuo come te stesso. Si dà per scontato che ci si ama.
Tutti?
Tutti, indistantamente. È una cosa di natura.
Ma l’uomo non è tanto naturale.
L’uomo non è naturale? Oggi vuoi stupirmi con i tuoi paradossi.
Non voglio stupire nessuno, nessuno, e soprattutto non voglio stupire te. Ti volevo mettere in guardia.
In guardia?
Certo. Volevo metterti in guardia da chi non vuole che tu sia felice.
Come chi, per esempio?

La proposta dell'ombra


Gebren
-
E qui finisce ogni cosa.
Anhel
-
Persino la sabbia è più fine. Si arrende.
G.
-
Già.
A.
-
Perché ha capito.
G
-
Ha compreso.
A
-
Cosa ha compreso?
G
-
Che oltre il punto in cui siamo seduti non c’è più nulla.
A
-
E allora si ritrae.
G
-
Si arrende. Forse è un posto pericoloso.
A
-
Lo vedi quello?
G
-
Cosa?
A
-
Quello.
G
-
È una torre.
A
-
È un’ombra lunga. Assomiglia alla tua casa.
G
-
Che dici? È solo una lunga ombra.
A
-
Un’ombra che qui non arriva.
G
-
Anche lei si arrende.
A
-
L’ombra arriva, del resto, dove arriva la luce.
G
-
Se non c’è luce non c’è ombra neppure.
A
-
È una cosa evidente.
G
-
E quello, quello lo vedi?
A
-
È un cane.
G
-
È l’ombra di un cane.
A
-
Rimane distante, ha paura.
G
-
È prudente, preferisce non arrivare fin qui.
A
-
Tu cosa hai portato?
G
-
Ho portato quanto avevamo stabilito. E tu?
A
-
Anch’io, io ho portato quanto era stato stabilito. Ma facciamo in fretta.
G
-
E perchè?
A
-
Non respiro bene, non vedi che ho l’affanno?
G
-
Sì, da un po’, sei tutto rappreso. La tua cassa toracica diventa striminzita ogni momento di più.
A
-
È una cosa mostruosa.
G
-
Non più di tanto, ci si abitua. A me non dà fastidio.
A
-
A me sì, però! Che discorsi. Guarda che fatica che faccio a respirare.
G
-
Facciamo in fretta, allora. Più in fretta facciamo prima ce ne andiamo.
A
-
Prima ce ne andiamo prima torniamo dov’eravamo prima. Tutti e due.
G
-
Certo.
A
-
Una bella cosa.
G
-
Certo.
A
-
Una cosa confortevole.
G
-
Ovvio.
A
-
Un luogo conosciuto, dove tutti ti conoscono.
G
-
Sì, quasi tutti insomma.
A
-
No, proprio tutti.
G
-
Tranne a quelli a cui non interessi.
A
-
Ma sono pochi.
G
-
Dici?
A
-
Certo, pochissimi.
G
-
Tu a chi interessi?

lunedì 20 febbraio 2012

Il gioco delle nuvole

Era un vecchio pescatore che non pescava più da almeno vent’anni, da quando la spalla s’era intestardita a fare di testa sua e il braccio gli era rimasto sempre un poco sollevato. Se ne andava in giro per il paese, con quell’aria innaturale di sufficienza che gli davano i reumatismi e una camminata sbilenca, rigida e altezzosa. Mi era permesso di chiamarlo Mimì, e questo privilegio mi era stato dato perché ero forestiero, venivo dalla città a stare nella casa che era stata di mio padre e che suo genero mi aveva dato una mano a sistemare. Coi suoi tempi, s’intende.
Quando dalla terrazza lo vedevo gironzolare sulla banchina trovavo una scusa qualunque per raggiungerlo. Più di una volta ho ricomprato il giornale, o il pane. Oppure ho finto pentendomene amaramente che mi interessasse il tramonto scarlatto portato dalla tramontana gelida, più acuminata del rasoio della mattina. Ma il fatto è che Mimì non parlava mai, e quando apriva bocca c’era sempre qualcosa da prendere, a volte persino da conservare.
Ora lo vedevo, passeggiare da solo sulla banchina, dopo la partita a carte alla fine della quale aveva sicuramente mandato al diavolo gli altri giocatori con le sue secche ma piuttosto creative imprecazioni. Gli riusciva benissimo, fra le altre cose, di combinare santi e animali. Zoppicava, e teneva il gomito alto come il cannocchiale di un sestante. Buttai un occhio al tavolo della cucina: il giornale sgualcito e il sacchetto di carta pieno di pane parlavano chiaro. Ci vuole coraggio, mi dissi, Gli dirò che passavo per caso.
Ma lui sapeva del mio bluff, e per rispettare la mia pudicizia si fingeva sempre sorpreso, seppure di quella sorpresa che prova una roccia a mare quando viene sferzata dall’ennesima onda. Mi salutava sempre dischiudendo la bocca, un taglio approssimativo nella faccia di cartone rugoso. Lo raggiunsi presto, l’acqua nera sciacquava laboriosamente i bordi del porto, io percepivo la millimetrica sensazione che ogni secondo la terra sotto i nostri piedi si ritirasse. Il cielo sembrava una colossale finestra rossa aperta sull’acqua. Due o tre nuvole resistevano ancora all’incedere del tramonto, allungate per l’estremo sforzo.
- Salute Mimì. Voglio perfezionare il gioco delle nuvole coi miei figli. - Era quella la mia trovata. Lui di figli ne aveva avuti due, maschi, tutti e due nel continente.
- Che gioco?
- Il gioco delle nuvole. Che forma hanno. Giochiamo a chi si accorge prima che forma hanno le nuvole. È un bel gioco.
- Mah.
- Non trovi, Mimì? Secondo me è un bel gioco. Io credo che sia istruttivo, per dei ragazzi. Vedono che qualcosa si forma e si disfa, allenano il loro spirito di percezione, si abituano all’impermanenza.
- Vero?
- Sì, al fatto che tutto cambia, che dura uno due dieci secondi e poi sfuma via. E che ci sono forme che hanno senso e altre no. C’è tutto, il cielo è una tela.
- E non le impareranno nella vita, tutte queste belle cose?
- Appunto, imparano a guardare nel cielo, e ad abituarsi a com’è fatta la vita. - Trionfavo.
Proseguimmo a camminare insieme, ed ebbi l’ardire di prenderlo sotto braccio. Allora lui, che certamente aveva gradito il gesto, si fermò, come si fermano i vecchi che per controbattere vogliono che tu li senta bene. - C’è un problema, però.
- Ah sì, e quale Mimì?
- Hai buona volontà, ma lasci sempre le cose a mezzo. Tu così, i tuoi figli, li abitui a pensare che sono le cose che cambiano, e loro invece sono belli fissi a terra, coi piedi saldi e nuddu i po’ muovere. Tu questo esercizio, questo gioco, come lo chiami, a loro glielo devi fare fare ‘nta varca, nella barca. Accussì capiscono che le nuvole si muovono e cambiano, ma pure loro sono in balìa del mare. 
Quando concluse si ritirò un momento, come per verificare che quello che aveva detto coincideva con quanto pensava. Poi riprendemmo a camminare. Mi conduceva al bar, aveva voglia di un amaro, uno degli ultimi che riuscii a offrirgli.

sabato 18 febbraio 2012

opus incertum


sono arrivati i libri di papà. alcuni hanno preso una conformazione, si sono impilati quasi da soli, generando un opus incertum che non mi sembra più tanto provvisorio. ricordavo l'enciclopedia imago mundi, sono anni che ci penso. è finita a fare da fondamenta sulla destra di questa piramide. poi checov, dostoieschi, un sacco di libri francesi, e libracci di selezione o di parapsicologia che erano il mio timegate da ragazzo. il libro tibetano dei morti, il touring club, svetonio, i libri del suo liceo, con le raccolte di autori greci e latini e un curioso libro firmato mussolini credo sul perfetto fascista. io che abito in via dei tessitori, già mussolini - dico tanto per dire - ma lui è stato un balilla. Malraux che parla dell'indocina, un ricettario. poi i libri che ha comprato negli anni novanta e duemila, roba anche indecente. 17 scatole di cartone che sono piombate sul mio ingresso, e ho disfatto in un paio d'ore. squarciando i lembi di scotch da imballo che sembravano le bende di una mummia mi andavo ricordando che era un gran lettore, uno che amava i libri, che mi ripeteva frasi di quello che leggeva, che diceva da machiavelli il principio primo della prudenza è quello di non offendere i potenti, e che questo mi suscitava ribrezzo dai vent'anni in su, e lo disprezzavo già solo per questo. e mi ha insegnato il francese, a sei anni leggevamo insieme l'art de vivre longtemps, praticamente in contemporanea a tartarino di tarascona che è stato il mio primo libro italiano. e mi leggeva cose da vecchi, perché lui era già vecchio. l'art de vivre longtemps, un libro di medicina di fine ottocento. a un bambino di sei-sette anni. e poi da adulto mi rompeva i coglioni con carmina non dant panem mentre io annaspavo a ingegneria e prendevo qualche boccata d'aria migliore in conservatorio e scrivevo racconti che trovava (buon primo di molti) illeggibili e reintitolava I miei tormenti, perché lui solo questo ci vedeva. Lui che mi ha obbligato a leggere ippolito nievo alle elementari e ingoiare tre o quattro canti della commedia a memoria, a un'età che neppure capivo e che è quel ch'i' odo diventava che è quel chiodo sennò non riuscivo a impararlo. e il disprezzo con cui toccò il bigliettino in cui LVMH mi diceva che no, non ero adeguato a quel posto à paris, e lo sporcò quel bigliettino in carta filigranata che già odorava di lusso e che io ho tenuto come una reliquia. e lui che non mi ha insegnato a leggere veramente, e ho dovuto fare i conti con questo e lo faccio ancora. ecco i suoi libri, incerti, vari, segni di una vita lunga ma incerta pure essa. ecco il suo ritratto migliore, nel bene e nel male 

venerdì 17 febbraio 2012

Monsieur Hél

Entrai in quel caffè senza pensarci troppo. Avevo voglia di qualcosa di caldo che mi aiutasse a sostenere il gelido nubifragio che infieriva da ore sulla città e la vista dei tavoli attraverso le ampie finestre del locale era bastata a convincermi. Non appena mi fui seduto e mi venne servita una bella tazza di tè fumante, mi parve di trovarmi in riva a una spiaggia assolata.

Mi ero accorto subito di lui. A quell’ora c’erano si è no cinque persone oltre me, ed era l’unico rimasto con il soprabito indosso. I lembi del lungo cappotto nero, dalle spalle quadrate, quasi militaresche, scomparivano sotto il tavolo come si trattasse di una coperta adagiata sulle gambe. Dentro faceva molto caldo e anche io, come gli altri del resto, ero rimasto in maniche di camicia, persino con un certo compiacimento. Se ne stava ben dritto sulla sedia, come se aspettasse un’ispezione da un momento all’altro. Vigile anche in faccia, e io pensai guardandolo che un bel paio di baffetti appena grigi su quell’ampio labbro sarebbero stati alla perfezione.

Gli altri avventori andavano e venivano. Solo noi due restavamo. Io ormai solo per curiosità perché immediatamente, entrando, avevo sentito che qualcosa in lui mi avrebbe interessato. Di più: avrebbe interferito con la mia vita, e non potevo sottrarmi. Ma perché lui restasse ancora non riuscivo a capirlo. Per ottenere la benevolenza dei camerieri ordinava ogni venti minuti un caffè, un tè, un cognac, sempre con la stessa espressione, mai meno che dignitosa. In effetti la malizia del gesto stava tutta nell’interpretazione che io ne davo. Col senno di poi avrei dovuto definirlo piuttosto una macchina che obbediva a una serie di istruzioni a tempo. Nelle pause tra un’ordinazione e l’altra assumeva nuovamente quella posa rigida e impeccabile. Ogni tanto muoveva la testa, ma per lo più fissava dinanzi a sé, dandomi l’inquietante impressione che non stesse neppure pensando. Anche se provavo a fissarlo per molti minuti di seguito fingeva di non accorgersene e seguitava a guardare avanti come un bambolotto. Un grosso bambolotto molto ben fatto che non aveva alcuna coscienza di sé.

Ero così assorto che quasi saltai sulla sedia quando una bella donna, alta e ben vestita gli si avvicinò per chiedergli un’informazione che non riuscii a carpire. Gli aveva rivolto due parole, non di più, quasi certamente una domanda. Lui aveva voltato appena la testa e aveva sorriso, facendo appena un cenno di diniego. Un uomo gentile ma freddo. Dopo due o tre oscillazioni il cranio era tornato nella posizione abituale e la donna si era dileguata, senza particolari reazioni e facendo un bel po’ di rumore coi tacchi. Dovevo sapere di più. Guardandolo meglio, fissandolo, mi accorsi che tutta la barba tranne i peli sul labbro, era lunga di un giorno almeno. Una peluria sottile e non troppo scura, che però era completamente assente sotto le narici. Questo significava solo una cosa, e cioè che quella mattina l’uomo si era tolto i baffi. La considerai una vittoria, anche se non seppi utilizzarla subito a mio favore. Ebbi bisogno di passare all’abbigliamento per realizzare una teoria plausibile. Sforzando i bulbi oculari a guadagnare qualche diottria mi parve di scorgere dei capelli lunghi e biondi sul cappotto, in corrispondenza del bavero e della manica sinistra. Era un bell’uomo, certamente, degno di una donna affascinante. Aveva avuto da poco un incontro. Poi venne la vera rivelazione. Sul lobo sinistro c’era il segno di un’infiammazione, anzi proprio di una ferita che aveva avuto appena il tempo di fare la crosta. Gli era stato dato un morso, un morso doloroso e dal significato inequivocabile. Avevo sentito dire, più di una volta, come le donne scandinave, molto più focose di quanto si pensi, abbiano l’abitudine di mordere con gli incisivi il lobo dei loro amanti prima di lasciarli per sempre, come delle piccole tarantole addomesticate ma non per questo meno velenose. Ecco perché era tanto scosso. La sua bellisima donna del Nord aveva fatto di lui quel che voleva, e ora soffriva le peggiori pene. Povero sconosciuto, tutto tornava in maniera talmente esatta da non lasciarmi neppure il minimo dubbio. Quando si è traumatizzati fino a tal punto non si sente né caldo né freddo, si va in un posto e ci si dimentica persino di togliersi il cappotto. È naturale. E se poi passa una signorina, magari una di quelle che battono questo quartiere in cerca di clienti, è ovvio che la cosa non susciti altro che indifferenza. Soffriva per un recente abbandono, forse solo di ieri sera, e che aveva voluto rendere evidente anche al proprio sguardo tagliandosi i baffi. Magari come spesso accade era stata lei a dirgli “Fatti crescere i baffi, fallo per me. Fallo o ti lascio subito!”. La cosa mi parve talmente evidente che per un momento mi venne voglia di andare io stesso a consolarlo, io che di queste cose, ahimè, ero piuttosto esperto. Ma un attimo dopo pensai l’esatto opposto, ricordandomi che l’ultima cosa che avrei voluto in quelle tristi occasioni era di essere importunato. Così rimasi dov’ero, e lui al suo posto, imperterrito col suo dolore.


Era trascorso molto tempo senza che nessuno dei due avesse più ordinato. Nel caffè non restavamo che noi due e i camerieri, che si aggiravano sempre più svogliati tra i tavoli. Il tipo che mi aveva servito era impaziente che ce ne andassimo per dare l’ultima scopata e sistemare le sedie. Dall’occhiata che mi mandò sembrava avesse intenzione di ramazzare anche me. Mi accorsi che dal centro del soffitto proveniva un bagliore sempre più flebile. Una a una le luci venivano spente: doveva essere la tattica usuale per invogliare i clienti più ostinati ad andarsene di propria volontà. Ruotai il polso destro verso i miei occhi: erano le dieci meno dieci. Come avevo appreso entrando e gettando uno sguardo al cartello sulla porta, tra pochi minuti avrebbero chiuso il locale. Dovevo raggiungerlo, adesso, chiedergli tutto quello che mi sarebbe venuto in mente, a cominciare dal perché si era tolto i baffi e poi, senza fargli capire che avevo già compreso tutto, consolarlo non appena mi avesse accennato alla tragica storia d’amore. Forse sarebbe nata un’amicizia, di quelle che a volte nascono tra adulti colpiti da una disgrazia simile, e che si incontrano in una sala d’aspetto. Di donne il mondo è pieno, questa gliel’avrei detta in ogni caso, qualunque piega avesse preso il discorso. Nonostante tutte le riserve, compresi che avrei dovuto comunque abbordarlo. Mi ero ormai deciso a raggiungerlo quando improvvisamente l’uomo si alzò. Il suo gesto mi apparve così macchinoso e innaturale che rimasi sconvolto e non riuscii a muovermi. Per venire fuori dal tavolo, facendo leva sulle braccia, cominciò a esibirisi in una specie di danza goffa e rumorosa che scuoteva il tavolo ed emetteva singhiozzi metallici. Un cigolio che penetrava nelle mie orecchie fastidioso come l’urlo di un rapace affamato, mentre incapace di rendermi conto di cosa avevo davanti continuavo a fissargli la testa, ballonzolante come se fosse stata montata su una molla. Gettai uno sguardo disperato sui camerieri, che fecero come se niente fosse, come se si trattasse di una cosa di tutte le sere. Poi, sempre più incredulo, spostai gli occhi quel tanto che bastava e vidi: al posto delle gambe aveva due grosse eliche in acciaio che dimenava ostinatamente per tirarsi fuori da lì.