mercoledì 25 luglio 2012

La generazione degli schermi


Immagini Dio chinato su uno schermo
che sposta le sorti, che affastella angeli in stack
che è al cinquantasette percento di un’anima
che apre finestre per controllare la felicità dei suoi
o a che punto sta la faticosa consapevolezza delle molte creature?
Accentriamo ogni cosa a venti centimetri dai nostri veri occhi, 
accumulando le forme e deliziandoci di questa micragnosa onnipotenza
e ci illudiamo che tutto sia disponibile e che poco ci manca che si possa toccare
solo perché ci appare dentro un’enorme pupilla rettangolare
comprata in qualche abbagliante emporio.
Siamo solo la generazione degli schermi, quella che crede
che bastino un po’ di pixel e una connessione 
– mi raccomando veloce! –
per realizzare l’onnipotenza
e che confonde un banale visore per l’autentica realtà.

lunedì 9 luglio 2012


Sento queste braccia che trepidano, perché percepiscono già un dovere e un senso nuovo
queste mani, si preparano devotamente a sorreggerti contro il mio petto
accudendo per ora una bolla d'aria, che a me pare più calda e che respiri.
Il tuo minuscolo corpo sul mio, sarà una lumachina addormentata
su un albero, a metà del cammino verso la rivelazione azzurra del cielo
e a quel velo tessuto di rondini, guarderemo entrambi e di notte
imparando a ricomporlo per costellazioni.
Ogni linfa sia tua, ogni singola ruga serva a sostenerti e siano gradini le mie imperfezioni.
Non uno dei gesti che d’ora in poi compirò, potrà fare a meno di te.

(alla mia lumachina ventura)


venerdì 6 luglio 2012



Il ratto


- mi parli del suo mondo.
- il mio mondo è piccolo. lontano. ma presente.
C'è un efebo; se mi concentro posso scorgerne il profilo, una linea più scura che si distingue su un fondo animato e incolore. I suoi occhi scrutano alla mia sinistra, credo mi ignori del tutto. C'è un albero, come in tutti i sogni, ma le sue radici non sono radicate in alcun posto: si direbbero rami all'ingiù. C'è la porta dei leoni, la sabbia che è terra attorno, resti di amori troppo violenti di tanto in tanto. Un vento forte che lascia immobili le cose e smuove solo i miei pigri capelli. Non posso dirmi né uomo né donna né, forse, creatura animale. Eppure sento nelle mie vene un istinto forte; la vedo, alta, i capelli e le labbra scuri, gli occhi nocciola come il fango – che una leggenda canta sangue della terra –, e contornati d'azzurro, che è la sostanza del cielo. in me è la perfetta certezza che quella sia la mia donna, che in lei scorra la stessa linfa preziosa che in me tracima di continuo. È di una bellezza che non riuscirò mai a comprendere, i suoi seni tendono una vesta chiara leggera come dita delicate che la stiano tessendo. Ho sempre vissuto in compagnia del pensiero di lei, fremente per quell'attimo in cui anche le me pupille avrebbero assaggiato; adesso posso davvero vederla, ed è come se un grande re mi avesse chiamato al suo cospetto. Grande potrà essere il mio piacere. Si avvicina a me, scivolando sui granelli di deserto di cui è figlia, le braccia  distese nobilmente scendono come gioielli lungo i fianchi. Si ferma, abbraccia un violino che era già stato di faraoni; veste l'archetto dei suoi crini lunghissimi, sistema le dita sul manico sottile che accoglie i suoi lievi polpastrelli come un fiore in lunga attesa dell’ape. Adesso intona un canto di morte dolcissimo: sciogli le tue carni nel sangue, il tuo cuore negli affetti; lascia ch'io beva di te. Berrai mia diva, ti nutrirai di me. vieni e io sarò l’ambrosia di cui si cerca invano il sapore. L'efebo, l'efebo è tornato. Intravedo una schiena bianchissima, possente, una tela di linee di forza, sono certo sia sua. L'efebo si muove, senza fretta, si direbbe che scorra senza tempo. Io tendo il mio cranio di morto impotente, già crepato dalla secchezza, a quella statua viva, a quell'idea magnifica che si muove e respira completamente soddisfatto di ciò che già è. È già tra le braccia della mia donna, e le loro nudità premono contro la terra. Mi volto: un piatto tra le mani ha inciso un aulo; lo imbocco, incerto. Salgo  su una pietra e m'improvviso pastore: mansuete pecore, sapete ove è l'erba più fresca? Cadono lacrime mentre i suoi occhi stravolti di piacere mi cercano. Scivolo da quel masso su cui mi ero detto capitano di greggi di nuvole, e cado in ginocchio. Strappo dell'erba, come la bevo, intera, così per com'è, perché torni sana e verde a quella terra domani. Escrementi produrrò in abbondanza, per nutrire il mondo, per ripagarlo di quanto m'ha dato. M'improvviso talpa, ma solo per scavarmi la fossa. Che sia bella, piena d'aria e vermi da mangiare. Navigherò da morto, decomposto saranno mille le mie parti, tra gli spazi minimi della terra grassa. Diverrò radice e fogna del mio animo in pezzi, e schiaccerò gli insetti ingordi che soli conoscono il mio nome, e costruirò una reggia sotto i suoi piedi, immensa perché ovunque si trovi io possa essere sempre sotto di lei, e percepire il profumo del respiro. I suoi polmoni, le sue narici sanno di lei, del suo sale ha gusto il sudore che scolerà sulla terra, e sarà quella la mia unica fonte: io berrò per amarla. E i suoi sussulti, le sue fatiche d'amore per altri, io ascolterò in silenzio straziando le mie labbra e cercando in me il suo corpo. Ma stanco un mattino riposerà il mio efebo, disteso sull'acqua sottile come orchidea. e lei veglierà un poco quel piccolo dio, solo nella sua bellezza, che non è solida, non è eterna, benché concessione divina. Nessun dio è eterno, ma anche solo per un giorno risplende di tutta la bellezza dell'universo. E infine anche lei si assopirà, vinta dai più dolci dolori. Spezzerà i capelli in un tonfo ovattato, trarrà a sé le ciglia, come petali, e lo sguardo riposerà dietro di essi, compiacendosi di qualche intima scoperta. Nel silenzio allora io trasuderò dalla terra, pezzetto dopo pezzetto, e il mio spirito che era con lei investirà il mio corpo esanime come una folata di scirocco, ridonando la vita. La sua nudità mi spaventa: potrei graffiarla con la mia barba dura, il mio corpo duro come la terra di cui mi sono nutrito. Ritorno un momento all'ombra e li vedo da lontano. Un fuoco mi brucia la gola e il ventre, allora, se li penso ancora vicini. È bella, è la mia donna, ma non è mia. Le passo un braccio sotto il collo, e con l'altro le reggo le gambe: l'ho presa. Ancora dorme e non sa. Una ghirlanda la copre, perché il desiderio non possa turbare il viaggio. I miei piedi si sono fatti alati, le porte del mio castello ci aspettano dischiuse.