martedì 31 gennaio 2012

if then

questo è un periodo di silenziose conquiste. il fatto che qualcuno di autorevole e attendibile abbia letto il romanzo che avevo intenzione di intitolare homopatia e l'abbia giudicato strano e bizzarro, noioso perché non narrativo e di fatto impubblicabile non mi ha minimamente sconvolto. già assistere a questa mia reazione è divertente e imprevedbile come certi giochetti di haydn. qualche mese fa sarei diventato isterico e invece ora Sì, trascinato da questa luce chiara che posso condividere riesco a dirlo: non mi vergogno di quanto ho scritto ma capisco il suo punto di vista. Ha aggiunto anche una cosa tenera, il tizio: Non brutto, quello che ho scritto è Non brutto. Non credo sia uno che ha paura di dire pane al pane, anzi, semmai è famoso per questo. Quindi Non brutto - ma io non spero, che mi frega di sperare - è definizione interessante. Dopo mezza giornata di autostima calante sono tornato a giudicare positivamente il libraccio homopatico che ho redatto in un anno molto faticoso ma concordo appieno con l'intellettuale, scrittore e docente di cui sopra che mi ha garbatamente stroncato. Poi riesco a mettere a fuoco l'essenza del "difetto": il romanzo si è autoprodotto, questo ho capito per la precisione stamane, si è autoprodotto per ricoprimenti: la scrittura non deve autogenerarsi. bisogna sorvegliarla, come una pianta infestante. Ad alcuni, me compreso, piace vedere - a volte - un campo infestato di piante eccessive, bellissime e opprimenti. Ma il barocco colossale è terribilmente fuori moda.


Altro pensiero, non autoprodotto, ma controllato: io che credevo che questo fosse un tempo senza moda, perché legittimasse tutte le mode. E invece no: impera la semplicità asciutta come l'elenco delle mosse in una partita a scacchi, forse è tornata l'asciutezza neoclassica, forse piace ciò che è completamente comprensibile e dico di più, replicabile. Forse ciò che leggiamo e scriviamo e vediamo e sentiamo deve essere consequenziale come le stringhe di un xml o di un codice qualsiasi e qualunque alfabetizzato deve essere in grado di poterlo dire/fare/baciare. if then.

lunedì 23 gennaio 2012

gradini

Si può scrivere anche per semplice riconoscenza, per esempio a qualcosa di bello. Si vuole espanderlo, farlo proprio non per egoistico accaparramento, per spirito di saccheggio, ma perché questo è l’unico vero modo di accudirlo. Un attore che reciti un verso lo fa suo, lo mastica dandogli altra vita, parte della sua, e aggiunge un'inflessione, della punteggiatura, forse anche qualche sillaba. Scrivere un nuovo romanzo per rendere omaggio a Xam’d, una delle cose più belle che mi siano capitate di vedere ultimamente: questo vorrei fare. E così, compresa anche questa altra cosa, mi sento un altro po’ in pace con me stesso.

venerdì 20 gennaio 2012

dopo una puntata di Xam'd

quando hai una persona davanti, tu non hai dinanzi a te solo quel corpo quella voce quelle pose. Dietro, dietro di lui, oscuro ai tuoi occhi ma ben visibile a ciò che non è visibile, si espande un secondo corpo, una sorta di ombra che può avere mille aspetti e dimensioni. È con lei che la tua ombra spirituale deve confrontarsi. 

giovedì 19 gennaio 2012

mattina

C'è da ritrovarsi ogni santa mattina. Sento proprio di dovermi tirare a riva. L'occhio smarrito, me lo vedo, la cinepresa che mi ritrae a 10 fotogrammi al secondo.

martedì 17 gennaio 2012

la vita del chinotto

Burger King: vedere la Coca Cola che scende dall’erogatore nel bicchiere di carta è uno spettacolo sconfortante. C’è molta aria in mezzo, si forma tantissima schiuma, e sembra che questo cilindretto di sostanza che tra un poco continuerà la sua corsa attraverso il gargarozzo dello scrivente ora venga giù con urgenza, precipita addirittura perché c'è dietro una spinta prepotente, un dittatore a pressione che si diverte dal bordo di una scogliera fittamente sponsorizzata da note bibite, uno spietato con gli occhi di metallo che insuffla anime perse in un burrone. Dalla fast-queue cui mi sono aggregato percepisco l'attesa mia e degli altri sommarsi in una nube che puzza di fritto e che vorrebbe sputare avanzi di patatine marce e che invece trattiene la propria ira nei confronti degli allegri servitori al banco perché sono loro che ti devono fornire ciò che non desideri ma chissà perché ora pretendi. Tutto si trattiene e o viene spinto. Poi arrivo io, sbaglio la pronuncia della lordura che ho cercato di imparare nel frattempo confondendo cipolle pastellate con bacon paraffinato e una h con una k, immagino anch'esse immerse nell'olio marca Flegetons. Poi arriva lei, chiesta di grazia senza ghiaccio. Nel bicchiere, coperto come un’incubatrice, riposa, recupera le sue forze organiche, torna a uno stato di liquame sopportabile per qualche istante. Benché non la ami, la accolgo nel mio vassoio, la porto a un tavolino grigio senza angoli come se fossi un infermiere diretto a un capezzale, e per un attimo ci rimango male, nei panni pure del paziente. Lei è la sola cosa che ultimamente si è mossa, ma da qui a dire che è viva ce ne vuole.
Mio caro liquido tra il nero e marrone, effervescente perché sodomizzato con co2, io ti devo spiegare una cosa: il bicchiere deve tornare a essere una misura, non la tua forma. Però, se proprio non te la senti di fare il grande passo - non balzo, passo, ora nessuna scogliera, mai più -, se vuoi conosco un tipo che produce chinotto, gli parlo di te, magari finisci in una di quelle bottiglie di vetro tutte curve, e per un po' almeno ti godi la vita.

domenica 15 gennaio 2012

Contenti loro

Una conoscente stamattina mi ha raccontato una cosa. Lei fa l’apicultrice, anche se ha un diploma da odontotecnica, fa il miele dalle parti di Reggio, ha una compagna da dieci anni e due cani tipo golden ma non proprio golden, bonaccioni e bellissimi che sono gli ultimi cani che vorresti avere per fare la guardia. Mi diceva che negli ultimi due anni sono almeno tre o quattro le coppie che si sono trasferite dalle sue parti, “per sfuggire al caos della città” ovvero “per riscoprire finalmente la gioia del silenzio”. Hanno comprato, e sistemato come se davvero ci dovranno passare il resto dei giorni. Mangiano e bevono a chilometro zero, sono dei grandi esperti di miele e vino senza solfiti, fingono ancora di essere un pochino impacciati quando si devono relazionare con qualcuno e quasi tutti sono senza figli o ne hanno uno che non si vede mai. La cosa importante però non è questa, è che in tutti questi casi il marito fa un mestiere figo a casa, tipo programmatore o uebd’sàiner, un altro disegna fumetti a quanto pare, uno boh forse è disoccupato, e tutti questi maschioni, non uno escluso, fingono di raschiare l’orto, di raccogliere due cavoli ogni tanto che magari hanno preso dal frigo per fare la scena, e per questo si sentono autentica gente della terra. Lo dicono proprio, ce lo vogliono infilare per forza nelle conversazioni. Qualcuno ha l'ardire di mostrarteli i frutti del sudato lavoro. Ti prendono per mano con un sorriso da fetenti e ti obbligano a seguirlo in cucina, dove ci sono i cadaveri vegetali in bella mostra sopra uno strofinaccio ancora neanche puliti bene. Anche quando comprano il miele lo guardano, lo osservano a favore e controluce, esprimono pareri. Non è raro che elargiscano consigli su un restyling dell'etichetta. La moglie o compagna o quello che è, invece, che si vede molto poco in giro e ha la decenza di parlare l'indispensabile, continua a lavorare in città, in un ufficio o uno studio, e si fa in media un’ora di macchina al giorno. Alle sette e mezza è già fuori e non torna mai prima delle otto. Inoltre, alla faccia del chilometro zero, un giorno sì e uno no, lei torna con la macchina piena di sacchetti della coop. 

venerdì 13 gennaio 2012

fame nervosa

ehi, falla finita di aprire il frigo di continuo. non c'è una possibilità una che quei quattro ingredienti rimasti si ricombinino in una maniera più appetitosa. e poi quel neon è davvero fastidioso.

zitto, o ci finisci dentro anche tu

c'è un giardino in fondo

Era un passante, la folla cercava di soccorrere a destra e manca tra le macerie, non si capiva più chi fosse vittima e chi soccorritore, tutti urlavano, si sostenevano l’un l’altro gridando di non mollare e nel frattempo imploravano l’aiuto di altri ancora, perché accorresse più gente possibile. Era un passante, e sfiorò i margini di quella folla. Alcuni lo guardarono sbigottiti, scandalizzati che non facesse niente, che non si rimboccasse le maniche e li aiutasse a scavare, ricoprendosi come gli altri di polvere e sudore. Chi in ginocchio, chi dimenandosi in terra, molti di loro lo insultavano e lo chiamavano vile e asociale, la bestia dicevano, ecco la bestia che non sa stare al mondo. A due che erano più vicini, lui che era un passante chiese Cosa è successo? Non vedi?, gli risposero gridando. Vedo, ma vedere non basta a sapere le cose. Voi sapete cosa è successo? Ecco un altro pazzo, ecco uno che si rifiuta di vedere le cose importanti, le cose come stanno! Il passante abbassò lo sguardo, e rimise le mani dentro le tasche. Ho già rinunciato a queste cose, aggiunse guardando già avanti. Se avete voglia conosco un giardino. È lì che vado.

Sono bastati quattro anni

La vita è strana, è strana perché succede tutto come in una formula, dove però senza che te ne accorgi si mischiano unità di misura diverse, e quindi non si può mai sapere, non hai idea alla fine di cosa prevalga. Ho sentito A, ieri sera. A è uno che scrive da dio, che scrive da sempre, che ha sempre detto Io devo fare lo scrittore. Certe volte m’ha pure rotto i coglioni con questa nenia, dico coglioni ma affettuosamente, perché in fondo ero complice. Ha pure pubblicato, con una casa medioimportante, era il 2006 mi pare e c'ha anche avuto il suo momento di celebrità. E invece l’ho sentito ieri dopo quattro anni, a parte qualche mail superficiale e forse due sms di auguri. Campa facendo il falegname, non proprio il falegname di porte, fa piccoli oggetti, soprattutto giocattoli, ma anche soprammobili o i giochi quelli di abilità di fronte ai quali le mie ginocchia si moltiplicano e le palpebre mi si abbassano leggermente. Dice che è molto più divertente di scrivere, guadagna bene, e ha quasi sempre la sensazione di un sorriso che gli fa compagnia sulla faccia. Volevo dirglielo, Certo che la vita è strana, ma poi mi sono fermato, perché magari si offendeva, per telefono non ci si capisce mai. È stato lui a dirlo, prima di chiudere, ma naturalmente a modo suo, con le sue parole che rispetto alle mie sembrano sempre con una dimensione in più. Mi ha detto Sai, la vita noi pensiamo che sia nostra, ma invece siamo noi che dobbiamo seguirla. E adesso ti saluto. 

giovedì 12 gennaio 2012

Quel signore lì

Quel signore lì, ne sono convinto, quello ha girato il mondo. Si capisce da come tiene i capelli, una passerella di fili sottili bianchi grigi, color delle perle al sole, e si capisce pure da come fa il verso di altri, da come racconta le cose. India, io credo, Oriente, ma anche quell’Europa del Nord che ai tempi suoi non ti dico cos’era, la vera scoperta, la miniera di corpi bellissimi e civiltà, di senso algido e struggente insieme della vita, come il loro sole, quel sole che c’hanno loro. Lo incontro nelle passeggiate paminesche, passando per quella strada lì, dove ha messo su una boutique, uno stanzone arredato con due cornici di caminetto e uno specchio rococò enorme e messo proprio al centro. Tu entri e prendi i maglioni, le sciarpe, te le provi, quelle due o tre maglie e sciarpe che ha, perché ne tiene davvero poche. Ha qualcosa anche dentro i cassetti di quelle cassettiere alte quanto una libreria che tiene dischiusi, e fanno sembrare che le cassettiere sono in décolleté, così, le hai sorprese mentre si mettevano in ordine ma una volte che sei entrato prego s’accomodi. Che ha viaggiato, che è un uomo di mondo lo capisci soprattutto da quei pantaloni, a sigaretta nonostante c’avrà i suoi sessantacinque-settanta, e le scarpe, diomio, scarpe allacciate di pelle rossa e gialla, ma non rosso e giallo da fare romanista, un rosso e giallo che potrebbero essere tipo amaranto e ocra, pantone 186 e 102, per lo meno. Lui di pantone ne saprà a bizzeffe, la prossima volta vi racconto pure quello che gli ho sentito dire passando…  

mercoledì 11 gennaio 2012

af(fav)orismo

la volontà è un cristallo vivo

C'è pace

Un momento, un solo momento. God is an astronaut - Loss, imparato da qui e la risatina di Sartre che mi dice L'enfer c'est l'autre, e io che da una vita gli rispondo Ma anche tutto il paradiso possibile. Intanto mi godo questo piccolo lago di musica e acqua color argento appena scoperta, acqua densa come il mercurio, una nebbia chiara che sfoca i contorni delle montagne appena discese. Silenzio dentro la musica, una cosa preziosa. E intanto ringrazio di cuore mariaemma per aver accolto quello che scrivo.

martedì 10 gennaio 2012

Un altro insetto

Lo studio di registrazione a quest’ora odora di muffa. S’immagina che adesso, che il sole ha mollato anche le ultime propaggini oltre la piccola finestra a sfioro del marciapiede, sbuchino da sotto il mobilio in fòrmica dei pollini particolari, di un colore violetto, o bluastro, e che questi sprigionino quest’odore particolare. Non sgradevole del tutto, ma che un poco lo inquieta dal punto di vista igienico e della salubrità. Le sue dita magre scorrono sui cursori, rifiniscono i settaggi. Sta preparando una traccia sull’intonarumori per la lezione del professore. Lavoro non semplice. Domattina il professore verrà eccezionalmente in studio, verso le dieci, dopo la prima lezione, verrà a sentire personalmente. La sua telefonata era molto chiara, quasi perentoria, sempre di una squisita formalità, aveva detto Gentilissimo S., con la sua voce impostata, di diaframma, Come da accordi passerò da lei tra le dieci e un quarto e le dieci e trenta. A domattina allora, la saluto. Il professore non è mai venuto in studio, le altre volte è stato sempre lui a recarsi con un cd all’Università. Gli era piaciuto farsi annunciare dall’usciere del dipartimento, bussare, aspettare qualche secondo mentre l’attesa per così dire prendeva forma concreta. Il professore quindi lo invitava a entrare, lo faceva accomodare, e terminava le sue occupazioni urgenti prima di rivolgergli completamente l’attenzione. Lui aveva il tempo di ammirare l’arredamento, ma mai abbastanza per completare un solo elemento, e così passava gran parte di quel silenzio a riproporsi di conservare qualche dettaglio, da approfondire la volta successiva. Un vecchio fonografo, in particolare, prometteva di essere un oggetto interessante. Ma c’era anche un pugnale del Siam, forse, una di quelle cose che sembravano uscite da un racconto di Salgari. Dopo una trentina di secondi, in media, il professore si volgeva a lui, ma si vedeva sempre che un occhio, o un orecchio, o almeno una piccola parte di quel prodigioso cervello erano altrove. A lui però questo non dispiaceva, forse perché si sentiva così garantito di una certa indulgenza, in caso di imprecisioni più o meno trascurabili. Ascoltavano insieme l’intera traccia, e di solito il professore poneva alcune domande molto tecniche, sui filtri utilizzati o sul bilanciamento. Assaporava sempre la risposta con l’aria di chi dovesse verificare con il proprio palato quanto stava scritto sull’etichetta di un vino che forse avrebbe acquistato, quindi congedava il suo fidato collaboratore, porgendogli la mano e accennando soltanto ad alzarsi. 
Il banco è sempre in disordine. Il monitor, ora che è spento, mostra impronte di dita oleose come se un bambino ci avesse giocato a schiacciare insetti. Dopo aver mangiato una di quelle sudicie merendine, magari proprio il figlio di quella del piano terra, magari in uno di quei rari momenti in cui S. si concede un caffè al bar di fronte lasciando la porta socchiusa. Questo odore è davvero insopportabile. Quella non è una finestra, è la feritoia di una cella, è impossibile sperare che aprendola si riesca a ricambiare un po’ l’aria. E poi, si sa, gli odori cattivi si accumulano tutti in basso. Gli odori dell’intero palazzo scendono giù fin nelle cantine, nei seminterrati. Alcuni precipitano dalle condotte, altri impregnano i muri e piano piano arrivano qui dove si trova lui. Lavorare in un luogo come questo non può essere una cosa positiva, si respira aria malsana, il lavoro stesso ne risente. E pensare a quante volte ci ha anche dormito, così per evitarsi il fastidio di tornare a casa, di farsi mezzora d’auto. È impossibile che il professore, in tutti questi anni, non abbia mai notato nulla. È indulgente, ecco tutto, è generoso e fa finta di non accorgersene. Prova per lui una certa simpatia, che forse confina anche con la pietà, o almeno con la compassione. Chissà quante volte quei cd che gli ha portato puzzavano, o erano sporchi, o graffiati. Nonostante la massima attenzione di S., che ha sempre fatto quel che poteva per apparire dignitosamente. Ma, appunto, per quel che poteva. Il professore ha fatto finta di niente, ma certo dentro avrà pensato qualcosa. Pochi secondi, perché è ovvio che non possa perdere tempo a occuparsi di gente inutile come lui, ma il tempo sufficiente per decidere qualcosa, una specie di piano. Un modo per trattarlo, per decidere cosa farne. E poi, mica S. ha mai assistito a una sua lezione. Come fa a sapere che usa davvero le sue tracce? È un etnoantropologo, il professore, nutre un forte interesse per le persone, ma di tipo scientifico, come un entomologo con i suoi schifosi animaletti. Gli appunti che prendeva durante i loro incontri non erano su qualcos’altro, magari erano proprio su di lui, sul suo atteggiamento così introverso, su questo maledetto difetto di pronuncia. Così, già l’ultima volta che S. è stato in dipartimento se ne poteva accorgere, notare che il professore era più distaccato, più estraneo. Gli ha dedicato meno tempo e infatti non ha voluto ascoltare l’intera traccia, come aveva fatto sempre. Era la traccia sul pianoforte viennese, sullo Streicher. Ha ascoltato quattro, cinque minuti, poi ha detto Va bene, va bene così, e l’ha licenziato. S. non ci ha badato lì per lì, ma adesso gli sembra un indizio evidente. Voice of Europe, il titolo del ciclo di lezioni. Almeno così gli ha detto. È un po’ di tempo, a parte questo episodio, che il professore gli dice cose che non lo convincono. Che senso ha Voice of Europe quando gli ha chiesto la traccia di un pianoforte del 1876? A volte si fa, a volte è capitato anche a S. di farlo, di dire qualcosa che distragga, che porti altrove l’attenzione. 
Quale luogo migliore, d’altronde? E quale orario più adatto? Alle dieci, domattina, il traffico per strada sarà caotico. I pannelli che insonorizzano lo studio copriranno qualunque tipo di rumore. Dall’Università a qui sono pochi minuti a piedi, in quattro, cinque minuti avrà fatto. Non hanno mai voluto rimettere la portineria, e quei maledetti del piano terra lasciano sempre il portone aperto. Il professore lo sa bene, come tutto il resto.

lunedì 9 gennaio 2012

stira e ammira

l'appretto di mia madre di quando stirava e ancora io non facevo i compiti, o se li facevo finivo presto sbucavo dalla mia stanzetta e il pomeriggio potevo stare con lei, immersi entrambi nella luce gialla dei neon vecchi della cucina che ognittanto sfarfallavano per ricordarci che se ci vedevamo dipendeva da loro, e l'odore dell'appretto stiraeammira arrivava ovunque, specie sulla panca di legno tutto graffiato e ammaccato nella quale amavo sedermi e anche infilarmi sotto, nell'incavo, per nascondermi così per gioco, per conservarmi, per così dire, o semplicemente stavo seduto con le gambe penzoloni. Non facevo i compiti ma disegnavo sui grandi quadernoni a quadretti che ancora sono giù, nel vecchio studio di mio padre con le ante in ferro battuto, questo me lo ricordo, e disegnando tenevo la testa tutta da un lato per appoggiarmi sul braccio che non disegna ma di solito fa da treppiede e riposarmi mentre disegnavo e a mente mia ci vedevo anche meglio, così, di sbieco, perché forse già ero un poco miope. L'odore di appretto, come non lo sento da anni.

passeggiate bolognesi

poi dice bologna. In quale altra città al mondo sarebbe possibile trovare «professionista esperienza bla bla impartisce a Domicilio Lezioni di Equitazione». Piazza Cavour, vedere per credere.

a tanto così dalla soluzione

perché ragiono meglio con le cuffie indosso, cuffie belle grandi coi cuscinetti e la staffa e il cavo lungo a occhio 150 cm?, perché ho l'impressione di concentrarmi, di ragionare meglio anche se lo spinotto che pure è attaccato a qualche uscita non riceve un solo elettrone e, pertanto, in cuffia non si sente niente?

venerdì 6 gennaio 2012

ora che ho capito questa cosa mi sento più in pace

[note dal mio cdl di Crollo della mente bicamerale]



Gli infiniti ricami pensosi sulla volontà sono vani. La volontà è una deduzione ingannevole. Essa non può che formarsi al di fuori di noi, come una nuvoletta di rugiada. La concepiamo dentro noi stessi semplicemente perché siamo convinti che agisca sugli altri, e quindi, per deduzione, deve per forza di cose essere anche dentro di noi. Utilizziamo la volontà come una specie di entità logica che possa determinare e rendere coerenti le azioni altrui. A un altro livello è la stessa cosa di dio. Le azioni altrui appaiono coerenti, e appaiono obbedire a una volontà, ma si tratta solo di una nostra deduzione: siamo esseri che devono in qualche modo - forse geneticamente - motivare quanto vedono accadere, forse per tentare di prevedere cosa accadrà dopo, per avere una possibilità di salvarsi. Abbiamo il vizio, del resto, di interpolare puntini luminosi e farne pezzi di zodiaco. La volontà individuale è un inganno, perché esiste solo come reazione a stimoli, ordini, suggestioni. Il gene egoista di Dawkins? 
Naturalmente neppure la tecnologia dispone di una qualche volontà, e chi fantastica che verrà fagocitato dalle macchine è poco più di un cybermasochista. In altri termini sta cercando - nella cosiddetta singolarità - l’avvento di una nuova e onnipotente divinità. Perché stare da soli, badare a se stessi, essere padri e madri di se stessi, è arcifaticoso. Come non esiste la volontà, così non esiste la coscienza. Volontà e coscienza sono concetti dedotti e installati nel nostro io (ma si può ancora usare questo termine senza venirne destabilizzati?) a partire da una specie di illusione mentale. Più o meno come con gli occhi vediamo cose che non ci sono semplicemente per assecondare le nostre strutture percettive, allo stesso modo pensiamo. O almeno crediamo di pensare.


ps: cdl sta per cahier de lecture, pretenzioso ma vero  

giovedì 5 gennaio 2012

loading - episodio 11. La gatta di casa


Gli uomini continuano a parlare, alimentando un rumore di fondo indistinto. Vorrei sapere di più, forse anche partecipare o almeno capire se potrei farlo, ma ogni volta che mi avvicino le parole risultano incomprensibili, come un cristallo di neve che si liquefacesse al mio approssimarsi. Comincio a pensare che parlino una lingua straniera e che certe parole suonano simili per una specie di inganno. Rovisto in quella piccola folla considerando i volti carte di un mazzo sparpagliato, un mazzo di carte vive e insubordinate che hanno appena scoperto di poter esistere al di fuori di un gioco prestabilito. C'è dell'eccitata spavalderia, in loro. Qualcuno ha il dorso rosso, qualcuno blu: si voltano un poco, per mostrare agli altri a che fazione appartengono, quindi riprendono a dirsi quel che avevano sospeso per un momento. Picche, cuori. Il re, il re governa ogni cosa, è a lui che alla fine dovranno chiedere di redigere il risultato. Da quello che avevo giudicato solo uno spiraglio, sulla destra, in fondo, e che invece è una porta vera e propria, viene fuori qualcuno. Due lunghe gambe nude e muscolose, levigate e lucide, ferrate alle estremità da un paio di sandali dal tacco sottile e vertiginoso, sbucano come una chimera dalla sua tana. Nonostante da sole siano del tutto umane e perfette, un attimo dopo quelle gambe sembrano appartenere a uno struzzo, perché è l’insieme, è il resto di ciò che subito compare dalla soglia che le fa apparire così. La ragazza indossa ancora quell’assurdo gilet di pelliccia, che ora sembra ancora più gonfio e grottesco, e la fa apparire sgraziata e insolente in parti più o meno uguali. La testa è senza espressione, e non sembra accomunata a uno solo dei dettagli che l’hanno preceduta. Al di là di quell’avanzo di animale morto, e dei sandali, non indossa altro. Con i tacchi inchioda ad ogni passo la moquette lurida dell’insolita passerella che qualcuno ha srotolato chissà quanti decenni fa, forse per la visita di un ospite di riguardo, e l’incedere lascia segni che sembrano quelli di un minuscolo predatore o di un piccione dalle dita amputate. Nessuno, indifferente a uno qualsiasi dei tanti motivi che riterrei ragionevoli, si cura di lei. Neanch’io, del resto, mi meraviglio di incontrarla ancora. Stretta nel suo pittoresco non-abbigliamento si aggira per la sala, senza cercare l’attenzione di qualcuno in particolare. Neppure io, ora, le interesso. Si rivolge chiaramente alle cose. Ha in mente un oggetto, e lo cerca come si cercherebbe una foglia dal profilo ben preciso in mezzo a una foresta, senza pretendere cioè che possa servire altro che la fortuna. Ma lei è forse il tipo da fortuna sfacciata, ed è per questo che non smette di cercare. Così, muovendosi con un leggero e svogliato movimento delle anche, propizia la buona sorte, e traccia delle traiettorie elicoidali che avviluppano i tavoli e le sedie, e i contenuti umani che incidentalmente li arredano. Come una gatta di casa nessuno si cura di lei, mentre spruzza da sotto la coda i suoi odori, e si soddisfa di qualche contatto accidentale, ma tutti sanno che c’è, e ne traggono una gran piacere.
Passa anche dalle mie parti, e io rimango volutamente fermo, immobile, e forse mi auguro di sembrarle una cosa anch’io, un oggetto a sua completa disposizione e, chissà, magari anche utile. Inspiro più forte, vorrei risucchiarla, almeno un poco, almeno qualche sua cellula superficiale. Uno di quei capelli mi basterebbe, uno di quei sottili capelli impigliato tra le punte sul mento che poco fa, quando non sapevo se entrare o meno, mi hanno quasi cartavetrato il polso. Ma come un asteroide che ha ben altre vastità da esplorare non cade nella mia orbita provinciale. 
- Salve - provo così a riagganciarla, sperando nel brusio di sottofondo per evitare scene patetiche.
- Ora ci diamo anche del lei?
- Ciao, allora. Cerchi qualcosa?
- Le chiavi.
- Di cosa?
- No, nessuna chiave. Come hai fatto a crederci? Vedi case, auto, motociclette?
- Ci saranno delle cabine, da qualche parte. Potevano essere le chiavi della tua cabina.
Mi guarda, come un animale che sente un rumore nuovo, artificiale, e inclina la testa stupito delle inaudite frequenze. - Cabine? Quello che vedi è tutto. Non c’è altro a bordo. 
- E dove passate la notte, allora?
- Questa che stai passando adesso, qui, non è notte, percaso?
Mentre mi parla finge di essere ancora più indaffarata, e usa la mano come fosse un piccolo rastrello, rimestando di qua e di là, tra alcuni oggetti alla rinfusa. A un certo punto ci mette quasi veemenza, perché forse mi vede tra quegli oggetti, e vuole spostarmi di forza. Ci sono molti aggeggi metallici, sembrano misuratori, e anche specie di microscopi o visori. Ghiere, piccole ghiere ovunque. È da quelle che sembra particolarmente interessata. 
- Io credevo che stanotte si trattasse di un caso eccezionale.
- Si vede che sei in cerca di eccezioni

lunedì 2 gennaio 2012

un angelo è impigliato


di fretta, ascensione complicata
il messaggio sta per evaporare
un angelo è impigliato
tra le setole del pittore ambizioso