Lo studio di registrazione a quest’ora odora di muffa. S’immagina che adesso, che il sole ha mollato anche le ultime propaggini oltre la piccola finestra a sfioro del marciapiede, sbuchino da sotto il mobilio in fòrmica dei pollini particolari, di un colore violetto, o bluastro, e che questi sprigionino quest’odore particolare. Non sgradevole del tutto, ma che un poco lo inquieta dal punto di vista igienico e della salubrità. Le sue dita magre scorrono sui cursori, rifiniscono i settaggi. Sta preparando una traccia sull’intonarumori per la lezione del professore. Lavoro non semplice. Domattina il professore verrà eccezionalmente in studio, verso le dieci, dopo la prima lezione, verrà a sentire personalmente. La sua telefonata era molto chiara, quasi perentoria, sempre di una squisita formalità, aveva detto Gentilissimo S., con la sua voce impostata, di diaframma, Come da accordi passerò da lei tra le dieci e un quarto e le dieci e trenta. A domattina allora, la saluto. Il professore non è mai venuto in studio, le altre volte è stato sempre lui a recarsi con un cd all’Università. Gli era piaciuto farsi annunciare dall’usciere del dipartimento, bussare, aspettare qualche secondo mentre l’attesa per così dire prendeva forma concreta. Il professore quindi lo invitava a entrare, lo faceva accomodare, e terminava le sue occupazioni urgenti prima di rivolgergli completamente l’attenzione. Lui aveva il tempo di ammirare l’arredamento, ma mai abbastanza per completare un solo elemento, e così passava gran parte di quel silenzio a riproporsi di conservare qualche dettaglio, da approfondire la volta successiva. Un vecchio fonografo, in particolare, prometteva di essere un oggetto interessante. Ma c’era anche un pugnale del Siam, forse, una di quelle cose che sembravano uscite da un racconto di Salgari. Dopo una trentina di secondi, in media, il professore si volgeva a lui, ma si vedeva sempre che un occhio, o un orecchio, o almeno una piccola parte di quel prodigioso cervello erano altrove. A lui però questo non dispiaceva, forse perché si sentiva così garantito di una certa indulgenza, in caso di imprecisioni più o meno trascurabili. Ascoltavano insieme l’intera traccia, e di solito il professore poneva alcune domande molto tecniche, sui filtri utilizzati o sul bilanciamento. Assaporava sempre la risposta con l’aria di chi dovesse verificare con il proprio palato quanto stava scritto sull’etichetta di un vino che forse avrebbe acquistato, quindi congedava il suo fidato collaboratore, porgendogli la mano e accennando soltanto ad alzarsi.
Il banco è sempre in disordine. Il monitor, ora che è spento, mostra impronte di dita oleose come se un bambino ci avesse giocato a schiacciare insetti. Dopo aver mangiato una di quelle sudicie merendine, magari proprio il figlio di quella del piano terra, magari in uno di quei rari momenti in cui S. si concede un caffè al bar di fronte lasciando la porta socchiusa. Questo odore è davvero insopportabile. Quella non è una finestra, è la feritoia di una cella, è impossibile sperare che aprendola si riesca a ricambiare un po’ l’aria. E poi, si sa, gli odori cattivi si accumulano tutti in basso. Gli odori dell’intero palazzo scendono giù fin nelle cantine, nei seminterrati. Alcuni precipitano dalle condotte, altri impregnano i muri e piano piano arrivano qui dove si trova lui. Lavorare in un luogo come questo non può essere una cosa positiva, si respira aria malsana, il lavoro stesso ne risente. E pensare a quante volte ci ha anche dormito, così per evitarsi il fastidio di tornare a casa, di farsi mezzora d’auto. È impossibile che il professore, in tutti questi anni, non abbia mai notato nulla. È indulgente, ecco tutto, è generoso e fa finta di non accorgersene. Prova per lui una certa simpatia, che forse confina anche con la pietà, o almeno con la compassione. Chissà quante volte quei cd che gli ha portato puzzavano, o erano sporchi, o graffiati. Nonostante la massima attenzione di S., che ha sempre fatto quel che poteva per apparire dignitosamente. Ma, appunto, per quel che poteva. Il professore ha fatto finta di niente, ma certo dentro avrà pensato qualcosa. Pochi secondi, perché è ovvio che non possa perdere tempo a occuparsi di gente inutile come lui, ma il tempo sufficiente per decidere qualcosa, una specie di piano. Un modo per trattarlo, per decidere cosa farne. E poi, mica S. ha mai assistito a una sua lezione. Come fa a sapere che usa davvero le sue tracce? È un etnoantropologo, il professore, nutre un forte interesse per le persone, ma di tipo scientifico, come un entomologo con i suoi schifosi animaletti. Gli appunti che prendeva durante i loro incontri non erano su qualcos’altro, magari erano proprio su di lui, sul suo atteggiamento così introverso, su questo maledetto difetto di pronuncia. Così, già l’ultima volta che S. è stato in dipartimento se ne poteva accorgere, notare che il professore era più distaccato, più estraneo. Gli ha dedicato meno tempo e infatti non ha voluto ascoltare l’intera traccia, come aveva fatto sempre. Era la traccia sul pianoforte viennese, sullo Streicher. Ha ascoltato quattro, cinque minuti, poi ha detto Va bene, va bene così, e l’ha licenziato. S. non ci ha badato lì per lì, ma adesso gli sembra un indizio evidente. Voice of Europe, il titolo del ciclo di lezioni. Almeno così gli ha detto. È un po’ di tempo, a parte questo episodio, che il professore gli dice cose che non lo convincono. Che senso ha Voice of Europe quando gli ha chiesto la traccia di un pianoforte del 1876? A volte si fa, a volte è capitato anche a S. di farlo, di dire qualcosa che distragga, che porti altrove l’attenzione.
Quale luogo migliore, d’altronde? E quale orario più adatto? Alle dieci, domattina, il traffico per strada sarà caotico. I pannelli che insonorizzano lo studio copriranno qualunque tipo di rumore. Dall’Università a qui sono pochi minuti a piedi, in quattro, cinque minuti avrà fatto. Non hanno mai voluto rimettere la portineria, e quei maledetti del piano terra lasciano sempre il portone aperto. Il professore lo sa bene, come tutto il resto.
Nessun commento:
Posta un commento