martedì 22 novembre 2011

L'insalata russa


Piselli, carote e patate a quadretti, uova olive se si vuole maionese in grande quantità, quanto basta quanto ingorda, e poi il tocco segreto: gamberetti e capperi. L’insalata russa di mia madre è tra le poche cose che ho ereditato da lei. Parentesi sull’eredità: è veramente ereditato ciò che viene donato. Le prime volte che l’ho preparata era quasi un’eucarestia, poco ci mancava che recitassi qualcosa e disponessi le guarnizioni a mo’ di rosario. L’ho fatto persino pateticamente, con le palpebre rigonfie e gli occhi acquosi. Ora, invece, acquisita la tecnica e cucinata a dovere l'elaborazione del lutto - pietanza dal retrogusto assai persistente -, mi pongo un altro problema. Quando invito gli amici a cena mi chiedo, a volte con quella polemica ossessiva da ruminatore convinto che mi tiene grande compagnia, se quello che offro è autentico. Buono e autentico sono due cose molto diverse, e quasi mai una cosa implica l’altra. Mi sono visto più di una volta vanitoso, esibire portate. Voglio intimamente che delle mie cene si dica “Ho mangiato benissimo, fino a scoppiare”, ma da quando mi sono sorpreso in questo atteggiamento, questa cosa mi mette perfino tristezza. Non gli amici, non chi siede alla tavola ma i loro complimenti? Per fortuna cerco di starci attento. Come è difficile agire senza vanità, anche in questo, specie in ciò che dovrebbe essere un dono. Al di là delle facili idealizzazioni mia madre metteva davvero poca vanità in cucina, che è invece la cosa che spingeva mio padre in esibizioni ai fornelli. Lei ci nutriva, ci faceva stare allegri, lui voleva farci capire quanto era bravo e fulmini se non si apprezzava. Non posso non citare a questo punto il celebre maial flambé di Tognazzi, che è perfetta sintesi di un certo modo di fare cucina, e di stare al mondo. Deve essere tipico degli uomini, per questo ci sono così tanti grandi chef maschi. (E se aggiungessi del caviale, giusto lungo i bordi?)

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