giovedì 24 novembre 2011

Veri terroni

Per uno che è nato a Palermo da genitori panteschi, e vive a Bologna solo da qualche anno senza aver spostato di una virgola il suo nasalissimo accento di "Palermo-centro", la parola terrone possiede numerose sfumature. Vibra di volta in volta in maniera diversa: finto-affettuosa canzonatura, orgogliosa e amarognola rivendicazione, esplicita offesa. Eviterò di girare la frittata, rievocare i sacri valori della terra, trovare antidoti e consolazioni: si tratta di una parola spiacevole, comunque la si voglia mettere. Il terrone è, bene che vada, un po’ cafone. Oggi chiamo un ufficio del vero sud, ho da compilare un temutissimo F24 e mi mancano dei dati. Alla prima telefonata, dopo una decina di inutili squilli, sento intervenire un’agghiacciante segreteria telefonica che con accento squisitamente meridionale (la erre spiaccicata sui denti, la labiali triplicate sempre, str liquidate con uno ch di cheval) mi ripete in loop infernale che il mio tempo di attesa sarà il più breve possibbbile. Il ritornello è talmente serrato che non riesco neanche a sorriderne, è solo fastidioso. Possibbbile possibbile possibbile. Ma ho quasi voglia di incazzarmi, voglio una scusa, è da giorni che cerco qualcuno o qualcosa per una bella sfuriata e decido che me lo ascolto, voglio vedere fino a che punto arriva. Naturalmente la terminator suddica non batte ciglio, può proseguire per mesi così, forte della incompresa ma utilissima tecnologia. Dopo due minuti, per metà dei quali la cornetta è riversa pancia all’aria come un insetto intossicato e continua, a debita distanza, a emanare l’irritante mantra della cortesia terrona, riaggancio. Mi faccio coraggio,
riprovo. Questa volta mi risponde un giovine gentilissimo, uno dei nostri, un siciliano vero. Ascolta con grande pazienza quello che ho da dirgli, è quasi affettuoso, comprensivo, ma alla fine della mia edotta elucubrazione di codici e maschere ammette che non ne sa niente. Alla fine, dopo un minuto buono che parlo. Con un sospiro che accompagnerebbe egregiamente il feretro di un parente mi dice che comunque deve passarmi l’ufficio competente. Squilli, ancora. Già blatero qualcosa contro i terroni. Ecco, il solito servizio terrone, i soliti impiegati nullafacenti. Poi dice la Lega. Questa è la volta che gliene dico quattro. Dopo aver perso il conto della solita luminaria di squilli sento che non risponde l’agognato collega competente, ma di nuovo il giovine solerte. Non cerco di capire che tipo di contratto ha, solo provo a immaginarmelo: capelli, faccia tonda, aria bonacciona, il calcetto il giovedì. Troppi cornetti. Troppa pasta. Forza Inter. È veramente gentile, ha fatto amicizia. Lui. Mi dice che i giorni in cui lo sportello è aperto sono altri - e io già temo - ma, colpo di scena, afferma con inatteso senso civico che è assurdo che uno deve pagare e deve pure aspettare per sapere gli estremi esatti del pagamento. Faccio il professionale, concordo ma già con un fremito di insofferenza, appartengo ora a quel genere di individui che non si occupano delle persone bensì della pura apparenza. Il giovine si impegna, dice che vuole provare a passarmi un’altra collega. Bref: altri due passaggi e, del tutto insperatamente, arrivo alla superspecialista: una mamma. Mi elenca, come una maestra elementare che recita Carducci da quarant’anni e ormai non vede più né pioggia né colli ma sente solo quella logora musica dei versi mentre pensa a ritirare i risultati della densitometria, i codici che devo inserire. Collaboro, aspetto che finisca e poi collaboro perché non voglio fare polemica ma solo risolvere il mio problema, cosa che per me è già un segno decisamente buono. Si è scoperto l’arcano: i codici numerici che avevo io, quelli riportati nella lettera che mi avevano inviato, erano vecchi, e la mascherina del computer della banca non li accettava per questo. C’ho messo una vita per decidermi a pagare, rispetto a quando mi è arrivata la lettera sono passati mesi, e nel frattempo hanno cambiato i codici. Ovvio che ora la maschera della banca non funziona. Non c’è niente da fare, sono un vero terrone.

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