venerdì 4 novembre 2011

Wicklot - prima parte

La sottile striscia di terra che chiamano città è morta. Il fiume la divide come un nastro oleoso, sopra vi scorrono relitti di ogni genere. Non c’è differenza tra un pezzo di tronco e un corpo gonfio sommerso per metà. Da qui sono tutte inezie scolorite, sottomesse a una volontà inesorabile che li conduce a un unico grande contenitore. Per quanto mi riguarda ogni cosa accade dietro un vetro, a una distanza che non riuscirei neppure a quantificare. Non ci sono odori speciali o rumori che valga la pena sentire. Sembra solo che un’enorme macchina tritapietre lavori incessantemente, per ingoiarsi la città un pezzo alla volta, ma è ancora molto lontana, all’opera in un indefinito orizzonte, e non sembra avere fretta di venire a trovarmi.

Stamattina ho mangiato come ho potuto. Detesto mangiare, è l’unica cosa per la quale veramente dipendo ancora dal mondo di fuori, ma dal momento che possiedo ancora uno stomaco non ho grosse alternative. Il liquido latteo era poco e ho preferito diluirlo sporgendo la tazza dalla finestra. Non mi sono mai abituato al sapore, ma nessuno è veramente certo che faccia più male del resto. Domani, in ogni caso, avrò ancora dove inzuppare il pane e se proprio vuole occuparsi di me, la morte dovrà trovare un altro sistema. Di mollica ce ne dovrebbe essere abbastanza per una settimana, me l’ha portata un flamand in uniforme tre giorni fa. È entrato coi suoi enormi anfibi distribuendo sudiciume fresco fin dentro la cucina. Ha detto di chiamarsi Wicklot, o qualcosa del genere, ma la seconda volta l’ha pronunziato alla maniera dei walo, Wicklò, pensando stupidamente di conquistare così la mia simpatia. Sembrava che le suole gli facessero da piedistallo di gomma. Io l'ho guardato in silenzio, seduto - se potessi, mi veniva da dirgli, mi metterei in piedi e ti farei vedere -, mentre mi faceva ombra, e ho pensato che in abiti civili sarebbe stato più basso di almeno sei dita. Si era lasciato una striscia di capelli rossicci, dall'attaccatura alla nuca, come una specie di mohicano, per rendere ancora più paurosa la faccia incollata al teschio. Non muoveva quasi le labbra, quando parlava, come se la bocca fosse una ferita che stava attento a non riaprire.

Era riuscito a contattarmi la sera prima, e io gli avevo richiesto viveri secondo le ultime quotazioni dei trasferimenti interni. È un modo come un altro per stabilire i prezzi, ma certo ci rimetto. In cambio di due pugni di pane ripristinato, meno di mezza oncia di foglie da infuso e una specie di ciambella molliccia che odorava di formaggio io avrei scritto per il fratello. Il mio lavoro vale adesso secondo mercato quanto fare attraversare a qualcuno due quartieri. Due quartieri da qui significa uscire dalla prima zona. Certo non un gran viaggio, soprattutto se si pensa che la prima zona è il posto più sicuro al mondo, mentre quel che faccio io il più delle volte salva la vita. Comunque così avevamo pattuito, con l’arida urgenza e il profondo disinteresse che contraddistinguono le nostre esistenze, e sapevo bene che non c’era niente da recriminare.

L’uomo che stava immobile davanti a me, rigido come un fantoccio, combatteva da sei settimane e aveva cambiato fronte già due volte. Forse prima di essere un flamand era stato un walo, e allora il suo nome sarebbe stato Huiclos, e prima ancora un uomo senza appartenenza, magari con un nome civile, tipo Fredo, o Neerl. A parte quella cosa stupida del nome non era affatto gentile, e io avevo l’impressione di avere già svelato tutta la buona disposizione d’animo che gli restava. Gli avevo detto della macchina tritapietre, del rumore che sentivo, senza tregua. Avevo usato un tono ambiguo, quasi che lui sapesse come farli smettere. Sono i cannoni, mi aveva risposto come chi non fa caso più a niente. Di chi?, avevo insistito. Di tutti. Non è più la città, adesso, il territorio conteso. 
- Ah no?
- No. I cannoni hanno una gittata sempre più corta e poco ci manca che si sparino addosso -. Non mi aspettavo che mi desse tutte queste spiegazioni, ma di fatto quella è stata l'ultima frase articolata che ha detto.

Ne ho incontrati molti come lui, sta diventando un genere diffuso. Ho visto anche un certo numero di miei vecchi compagni walo comportarsi alla stessa maniera. Si vantava del fatto che alcuni dei cadaveri che vedevo scorrere da giorni sulla Mosa li avesse accoppati personalmente, dalle colline del Condroz. Rimanevo immobile, mentre aspettavo che gli ultimi colpi della sua risata secca svanissero del tutto, assorbiti dal rumore continuo della macchina tritapietre che da quando era entrato sembrava fosse cresciuto, e che la sua smorfia sopra il mento tornasse a rimarginare. C’era persino della vanità, nelle sue parole. Sotto questo aspetto, per quanto possibile, ho provato una specie di invidia. Molti di quei morti erano stati suoi compagni, prima che indossasse un’altra divisa. Entro un mese, se mai ci fosse stato per lui ancora un intero mese, avrebbe cambiato parte di nuovo, e avrebbe trucidato qualcuno dei suoi commilitoni di adesso, magari uno di quelli che, in cambio di qualche favore possibile solo attraverso una forma di violenza, gli avevano procurato i viveri con cui mi pagava.

Come prima cosa mi ha chiesto con insolenza se nascondessi dei proiettili, da qualche parte. Sono stato indulgente, ho pensato che deve conoscere solo questi modi, e ho scrollato le spalle, per dire Cerca pure, troverai solo blatte: è bastato perché rinunciasse. Conoscono due o tre atteggiamenti, non più. D'altronde ogni giorno si svegliano, controllano di essere ancora vivi e poi cercano di conteggiare quante persone hanno ammazzato fino a questo punto. Mi chiedo se contino loro stessi tra i vivi o tra i morti, ma questa deve essere l'unica raffinatezza possibile in questo genere di contabilità.

In silenzio, mentre continuava a starmi ancora davanti, fantasticavo che il fiume gli scorresse sotto gli occhi in senso inverso, mostrandogli due volte quei cadaveri. Ma poi ho capito che questa che io intendevo come una specie di tremenda punizione avrebbe ottenuto su di lui l'effetto contrario e anzi si sarebbe inorgoglito doppiamente, così me l’ero proibita. Non c’eravamo detti altro, ma con un gesto da primitivo mi aveva regalato del tabacco quasi secco pescato dal fondo di una tasca. La mia vecchia pipa mi era stata rubata e non avendo come fumarlo ne avevo messo subito un poco in una narice, avendo cura di non sbriciolarlo, manipolandolo con la punta estrema delle dita. Pizzicava come deve fare il vero tabacco. Con un dito lo avevo appena bagnato di saliva, e si era un po' rinvigorito, sebbene l’odore della saliva mi desse fastidio. Avevo tratto un respiro profondo, sospinto fino al fondo dei polmoni, lì dove ancora deve rintanarsi qualche bolla d’aria pulita, la sola cosa grazie alla quale sopravvivo. Erano settimane che non provavo una sensazione simile, una specie di euforica liberazione, ma malauguratamente non ero solo. Continuava a guardarmi, senza mai sciogliersi da quella posizione che doveva sentire degna di un militare. Estrassi il tabacco dalla narice e lo conservai nel palmo della mano che chiusi come un pacchetto: l’avrei finito di gustare dopo. Per un momento avevo avuto l’impressione che si stesse riposando, proprio in casa mia, immobile in quella posa idiota. Magari pensava che ero un privilegiato. Non avevo nessuna voglia di ringraziarlo, né di compatirlo, né di stringere una qualsiasi forma di amicizia: io avrei cercato di salvare suo fratello e saremmo stati pari. Non avevo mai pensato al fatto che dietro i vetri della mia finestra, nelle mie condizioni, qualcuno potesse pensare che io vivessi in una sorta di tregua. Forse c'era persino da essere orgogliosi, o almeno lusingati, ma quell'uomo mi imbarazzava, e non mi consentiva neppure di provare veri sentimenti. Poi, finalmente, aveva deciso di andarsene, portandosi dietro un po' del mio sudiciume domestico. Mi aveva annunciato sulla porta che la notte stessa sarebbe partito per la costa. Avevo pensato che se lasciava il continente era perduto. Ci sono ancora navi? avevo chiesto con un'ingenuità tutta impiastricciata. Ma lui non aveva risposto. Solo dopo che era trascorso un po’ di tempo, da solo, io e la macchina tritapietre in sottofondo, mi ero reso conto che avrebbe potuto essere un agente di controllo e che io avevo appena rischiato di morire prima del tempo.

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