lunedì 20 febbraio 2012

Il gioco delle nuvole

Era un vecchio pescatore che non pescava più da almeno vent’anni, da quando la spalla s’era intestardita a fare di testa sua e il braccio gli era rimasto sempre un poco sollevato. Se ne andava in giro per il paese, con quell’aria innaturale di sufficienza che gli davano i reumatismi e una camminata sbilenca, rigida e altezzosa. Mi era permesso di chiamarlo Mimì, e questo privilegio mi era stato dato perché ero forestiero, venivo dalla città a stare nella casa che era stata di mio padre e che suo genero mi aveva dato una mano a sistemare. Coi suoi tempi, s’intende.
Quando dalla terrazza lo vedevo gironzolare sulla banchina trovavo una scusa qualunque per raggiungerlo. Più di una volta ho ricomprato il giornale, o il pane. Oppure ho finto pentendomene amaramente che mi interessasse il tramonto scarlatto portato dalla tramontana gelida, più acuminata del rasoio della mattina. Ma il fatto è che Mimì non parlava mai, e quando apriva bocca c’era sempre qualcosa da prendere, a volte persino da conservare.
Ora lo vedevo, passeggiare da solo sulla banchina, dopo la partita a carte alla fine della quale aveva sicuramente mandato al diavolo gli altri giocatori con le sue secche ma piuttosto creative imprecazioni. Gli riusciva benissimo, fra le altre cose, di combinare santi e animali. Zoppicava, e teneva il gomito alto come il cannocchiale di un sestante. Buttai un occhio al tavolo della cucina: il giornale sgualcito e il sacchetto di carta pieno di pane parlavano chiaro. Ci vuole coraggio, mi dissi, Gli dirò che passavo per caso.
Ma lui sapeva del mio bluff, e per rispettare la mia pudicizia si fingeva sempre sorpreso, seppure di quella sorpresa che prova una roccia a mare quando viene sferzata dall’ennesima onda. Mi salutava sempre dischiudendo la bocca, un taglio approssimativo nella faccia di cartone rugoso. Lo raggiunsi presto, l’acqua nera sciacquava laboriosamente i bordi del porto, io percepivo la millimetrica sensazione che ogni secondo la terra sotto i nostri piedi si ritirasse. Il cielo sembrava una colossale finestra rossa aperta sull’acqua. Due o tre nuvole resistevano ancora all’incedere del tramonto, allungate per l’estremo sforzo.
- Salute Mimì. Voglio perfezionare il gioco delle nuvole coi miei figli. - Era quella la mia trovata. Lui di figli ne aveva avuti due, maschi, tutti e due nel continente.
- Che gioco?
- Il gioco delle nuvole. Che forma hanno. Giochiamo a chi si accorge prima che forma hanno le nuvole. È un bel gioco.
- Mah.
- Non trovi, Mimì? Secondo me è un bel gioco. Io credo che sia istruttivo, per dei ragazzi. Vedono che qualcosa si forma e si disfa, allenano il loro spirito di percezione, si abituano all’impermanenza.
- Vero?
- Sì, al fatto che tutto cambia, che dura uno due dieci secondi e poi sfuma via. E che ci sono forme che hanno senso e altre no. C’è tutto, il cielo è una tela.
- E non le impareranno nella vita, tutte queste belle cose?
- Appunto, imparano a guardare nel cielo, e ad abituarsi a com’è fatta la vita. - Trionfavo.
Proseguimmo a camminare insieme, ed ebbi l’ardire di prenderlo sotto braccio. Allora lui, che certamente aveva gradito il gesto, si fermò, come si fermano i vecchi che per controbattere vogliono che tu li senta bene. - C’è un problema, però.
- Ah sì, e quale Mimì?
- Hai buona volontà, ma lasci sempre le cose a mezzo. Tu così, i tuoi figli, li abitui a pensare che sono le cose che cambiano, e loro invece sono belli fissi a terra, coi piedi saldi e nuddu i po’ muovere. Tu questo esercizio, questo gioco, come lo chiami, a loro glielo devi fare fare ‘nta varca, nella barca. Accussì capiscono che le nuvole si muovono e cambiano, ma pure loro sono in balìa del mare. 
Quando concluse si ritirò un momento, come per verificare che quello che aveva detto coincideva con quanto pensava. Poi riprendemmo a camminare. Mi conduceva al bar, aveva voglia di un amaro, uno degli ultimi che riuscii a offrirgli.

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