venerdì 17 febbraio 2012

Monsieur Hél

Entrai in quel caffè senza pensarci troppo. Avevo voglia di qualcosa di caldo che mi aiutasse a sostenere il gelido nubifragio che infieriva da ore sulla città e la vista dei tavoli attraverso le ampie finestre del locale era bastata a convincermi. Non appena mi fui seduto e mi venne servita una bella tazza di tè fumante, mi parve di trovarmi in riva a una spiaggia assolata.

Mi ero accorto subito di lui. A quell’ora c’erano si è no cinque persone oltre me, ed era l’unico rimasto con il soprabito indosso. I lembi del lungo cappotto nero, dalle spalle quadrate, quasi militaresche, scomparivano sotto il tavolo come si trattasse di una coperta adagiata sulle gambe. Dentro faceva molto caldo e anche io, come gli altri del resto, ero rimasto in maniche di camicia, persino con un certo compiacimento. Se ne stava ben dritto sulla sedia, come se aspettasse un’ispezione da un momento all’altro. Vigile anche in faccia, e io pensai guardandolo che un bel paio di baffetti appena grigi su quell’ampio labbro sarebbero stati alla perfezione.

Gli altri avventori andavano e venivano. Solo noi due restavamo. Io ormai solo per curiosità perché immediatamente, entrando, avevo sentito che qualcosa in lui mi avrebbe interessato. Di più: avrebbe interferito con la mia vita, e non potevo sottrarmi. Ma perché lui restasse ancora non riuscivo a capirlo. Per ottenere la benevolenza dei camerieri ordinava ogni venti minuti un caffè, un tè, un cognac, sempre con la stessa espressione, mai meno che dignitosa. In effetti la malizia del gesto stava tutta nell’interpretazione che io ne davo. Col senno di poi avrei dovuto definirlo piuttosto una macchina che obbediva a una serie di istruzioni a tempo. Nelle pause tra un’ordinazione e l’altra assumeva nuovamente quella posa rigida e impeccabile. Ogni tanto muoveva la testa, ma per lo più fissava dinanzi a sé, dandomi l’inquietante impressione che non stesse neppure pensando. Anche se provavo a fissarlo per molti minuti di seguito fingeva di non accorgersene e seguitava a guardare avanti come un bambolotto. Un grosso bambolotto molto ben fatto che non aveva alcuna coscienza di sé.

Ero così assorto che quasi saltai sulla sedia quando una bella donna, alta e ben vestita gli si avvicinò per chiedergli un’informazione che non riuscii a carpire. Gli aveva rivolto due parole, non di più, quasi certamente una domanda. Lui aveva voltato appena la testa e aveva sorriso, facendo appena un cenno di diniego. Un uomo gentile ma freddo. Dopo due o tre oscillazioni il cranio era tornato nella posizione abituale e la donna si era dileguata, senza particolari reazioni e facendo un bel po’ di rumore coi tacchi. Dovevo sapere di più. Guardandolo meglio, fissandolo, mi accorsi che tutta la barba tranne i peli sul labbro, era lunga di un giorno almeno. Una peluria sottile e non troppo scura, che però era completamente assente sotto le narici. Questo significava solo una cosa, e cioè che quella mattina l’uomo si era tolto i baffi. La considerai una vittoria, anche se non seppi utilizzarla subito a mio favore. Ebbi bisogno di passare all’abbigliamento per realizzare una teoria plausibile. Sforzando i bulbi oculari a guadagnare qualche diottria mi parve di scorgere dei capelli lunghi e biondi sul cappotto, in corrispondenza del bavero e della manica sinistra. Era un bell’uomo, certamente, degno di una donna affascinante. Aveva avuto da poco un incontro. Poi venne la vera rivelazione. Sul lobo sinistro c’era il segno di un’infiammazione, anzi proprio di una ferita che aveva avuto appena il tempo di fare la crosta. Gli era stato dato un morso, un morso doloroso e dal significato inequivocabile. Avevo sentito dire, più di una volta, come le donne scandinave, molto più focose di quanto si pensi, abbiano l’abitudine di mordere con gli incisivi il lobo dei loro amanti prima di lasciarli per sempre, come delle piccole tarantole addomesticate ma non per questo meno velenose. Ecco perché era tanto scosso. La sua bellisima donna del Nord aveva fatto di lui quel che voleva, e ora soffriva le peggiori pene. Povero sconosciuto, tutto tornava in maniera talmente esatta da non lasciarmi neppure il minimo dubbio. Quando si è traumatizzati fino a tal punto non si sente né caldo né freddo, si va in un posto e ci si dimentica persino di togliersi il cappotto. È naturale. E se poi passa una signorina, magari una di quelle che battono questo quartiere in cerca di clienti, è ovvio che la cosa non susciti altro che indifferenza. Soffriva per un recente abbandono, forse solo di ieri sera, e che aveva voluto rendere evidente anche al proprio sguardo tagliandosi i baffi. Magari come spesso accade era stata lei a dirgli “Fatti crescere i baffi, fallo per me. Fallo o ti lascio subito!”. La cosa mi parve talmente evidente che per un momento mi venne voglia di andare io stesso a consolarlo, io che di queste cose, ahimè, ero piuttosto esperto. Ma un attimo dopo pensai l’esatto opposto, ricordandomi che l’ultima cosa che avrei voluto in quelle tristi occasioni era di essere importunato. Così rimasi dov’ero, e lui al suo posto, imperterrito col suo dolore.


Era trascorso molto tempo senza che nessuno dei due avesse più ordinato. Nel caffè non restavamo che noi due e i camerieri, che si aggiravano sempre più svogliati tra i tavoli. Il tipo che mi aveva servito era impaziente che ce ne andassimo per dare l’ultima scopata e sistemare le sedie. Dall’occhiata che mi mandò sembrava avesse intenzione di ramazzare anche me. Mi accorsi che dal centro del soffitto proveniva un bagliore sempre più flebile. Una a una le luci venivano spente: doveva essere la tattica usuale per invogliare i clienti più ostinati ad andarsene di propria volontà. Ruotai il polso destro verso i miei occhi: erano le dieci meno dieci. Come avevo appreso entrando e gettando uno sguardo al cartello sulla porta, tra pochi minuti avrebbero chiuso il locale. Dovevo raggiungerlo, adesso, chiedergli tutto quello che mi sarebbe venuto in mente, a cominciare dal perché si era tolto i baffi e poi, senza fargli capire che avevo già compreso tutto, consolarlo non appena mi avesse accennato alla tragica storia d’amore. Forse sarebbe nata un’amicizia, di quelle che a volte nascono tra adulti colpiti da una disgrazia simile, e che si incontrano in una sala d’aspetto. Di donne il mondo è pieno, questa gliel’avrei detta in ogni caso, qualunque piega avesse preso il discorso. Nonostante tutte le riserve, compresi che avrei dovuto comunque abbordarlo. Mi ero ormai deciso a raggiungerlo quando improvvisamente l’uomo si alzò. Il suo gesto mi apparve così macchinoso e innaturale che rimasi sconvolto e non riuscii a muovermi. Per venire fuori dal tavolo, facendo leva sulle braccia, cominciò a esibirisi in una specie di danza goffa e rumorosa che scuoteva il tavolo ed emetteva singhiozzi metallici. Un cigolio che penetrava nelle mie orecchie fastidioso come l’urlo di un rapace affamato, mentre incapace di rendermi conto di cosa avevo davanti continuavo a fissargli la testa, ballonzolante come se fosse stata montata su una molla. Gettai uno sguardo disperato sui camerieri, che fecero come se niente fosse, come se si trattasse di una cosa di tutte le sere. Poi, sempre più incredulo, spostai gli occhi quel tanto che bastava e vidi: al posto delle gambe aveva due grosse eliche in acciaio che dimenava ostinatamente per tirarsi fuori da lì. 

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