Benché la definizione di Mutolismo suoni a primo acchito piuttosto infelice - a me ha fatto pensare a una sorta di menomazione, ma è un problema ricorrente quando si cerca di tradurre in maniera tanto letterale i nomi di correnti straniere battezzate in lingue non neolatine - devo riconoscere che il valore intrinseco di queste opere è notevole. Non può essere un caso che le recenti mostre tenutesi a Den Haag, a Gliwice in Polonia, e persino in una sala del prestigiosissimo Hamburger Bahnhof abbiano riscosso tanto successo, come si dice in questi casi unanime di pubblico e di critica. Io non sono certo un esperto e quindi eviterò di esibirmi in contorsioni sul valore di quanto sta suscitando tanto interesse. Devo limitarmi a quanto vedo e percepisco, e cercare di esprimerlo come posso. È anzitutto evidente che il Mutolismo possiede qualche ragione d’esistere e il merito di farsi notare nella generale tendenza al redshift dell’arte contemporanea. A mio modesto avviso si tratta di tele agghiaccianti nella loro semplicità, superfici che già per lo specifico trattamento hanno una potenza espressiva e una capacità di rendere lo spettatore autenticamente partecipe che poche altre opere possono vantare. Sanno ricondurre con forza a un presente - pur nell’assoluto antirealismo, quasi sfacciato - che invece pare sfuggire da tutte le parti e non solo nel figurativismo e post-figurativismo. La forza con cui i vari Minewicz, Loeb e gli altri ci rivolgono la parola è da lasciare persino perplessi. In un momento in cui la realtà si sfascia palesemente, si disgrega abbandonando quelle strutture consolatorie - anche ideologiche - che l’avevano tenuta insieme come grinfie di un’arpia metallica -, in un decennio come questo in cui l’architettura è design in scala gigante, il quotidiano è disseminato di pod che si riproducono incrociandosi tra di essi e proponendosi simili in dimensioni diverse come nei peggiori incubi cyborgenetici, in un tempo come questo l’effrazione dell’antirealtà può essere una soluzione, uno squillo di tromba efficace. La necessità di una partecipazione che scaturisce da queste opere d’arte è talmente evidente da non richiedere chiose forbite o le solite motivazioni da psicologia percettiva. La si guarda e basta. Ed essa agisce, con un incantamento che a dire il vero quasi avevamo dimenticato. Ci si muove a partire da questo modo di fare arte, si compie necessariamente un passo. Credo che il nesso più forte l’abbia rilevato un mio allievo, un ragazzo di neppure diciassette anni, che con la freschezza tipica di chi sta ancora accrescendosi nell’entusiasmante avventura dell’educazione liceale - il prodigioso lievito finirà presto, ma lui ancora non lo sa -, ha così commentato: - C’è da restare muti.
Frase evidente, banale, e persino paradossale. Ma dietro cui mi è parso di scorgere un triste presagio. Che futuro, che ricezione potrà esserci in un paese come il nostro in cui, oltre alla condizione asfittica del sistema cultura, la parola ai cittadini è stata già da tolta da tempo? Che stupore potrà suscitare da noi il Mutolismo, forse la corrente più innovatrice degli ultimi cinque lustri, quando l’annichilimento più assoluto è già entrato a far parte del nostro principale ordine di idee?
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