Ma non c’è cibo né acqua qui dentro. Le gambe fremono, benché quasi si sciolgano per la fatica. Vorrei avere un piano, o almeno un’idea qualsiasi che abbia il coraggio di immaginare qualcosa fuori di qui, ma l’unica cosa che so è che se voglio continuare a vivere non ci sono altre uscite oltre quella porta da cui sono tornato - e questo ora mi sembra essere stato un errore gravissimo -, e che probabilmente quei due mentecatti stanno ancora lì, aspettando la mia prossima mossa, forse anche l’ultima. Dove saranno finiti? Magari si sono annoiati. La noia è il sentimento più diffuso, avrà contagiato anche loro. Sono umani, in fondo. È curioso come all’interno della roulotte non arrivi quasi nessun rumore. Mi accosto alla porta. Se faccio aderire l’orecchio alla lamiera gelida sento qualcosa di simile al muggito rauco delle conchiglie, un canto esoterico e indecifrabile, e probabilmente anche del tutto privo di senso. Mi faccio forza e mi decido a uscire, ripetendomi che non ho altra scelta. Ma per quanta forza ci metta la porta non va, neppure a spallate. Infuriato mi ricordo degli oblò. Mi affaccio, e quello che vedo - o meglio non vedo - è terrificante: è notte e sono in mare aperto, imprigionato in questa gelida tomba di lamiera che galleggia per non più di metà.
lunedì 5 dicembre 2011
Loading - episodio 4. La preparazione del viaggio
Devo procurarmi tutto ciò che mi potrà essere utile. Dopo qualche minuto che passo ad aprire e chiudere i maleodoranti vani distribuiti diabolicamente in questo spazio claustrofobico mi rendo conto che sto solo perdendo tempo. Anzi continuo a ripetere l’inutile operazione con sempre maggiore violenza. A un certo punto metto una tale foga nel chiudere uno sportello che la baracca sembra venire giù, ed è come se addirittura l’avessi spostata. Sento un rumore dal fondo, come se qualcuno grattasse, un rumore che potrebbe terrorizzarmi. Non so da quanto dura, forse sto solo esagerando e montando ad arte la cosa, perché cerco una scusa per maledire e abbandonare questo posto. Qualcuno - non io, ne sono certo -, ha messo delle lenzuola umide, strizzate malamente e che puzzano di piscio proprio dentro il lavello. Lo avrà fatto mentre ero in spiaggia. Sono bianche con dei vistosi girasoli neri: forse una specie di messaggio intimidatorio che ancora non so interpretare, ma che quando realizzerò mi farà ammattire. Devo andarmene il prima possibile, riposerò altrove, quando e come potrò, perché qui è impossibile trovare la quiete necessaria. Come un gatto o piuttosto un barbone che ha passato le ultime ore a frugare tra i cassonetti, ho raggruppato il deludente bottino su un ripiano per l’inventario. C’è qualche vite, alcuni chiodi storti, un paio di bicchieri in vetro molto grossolano, una mezza dozzina di cucchiaini, un coltellino svizzero senza lame, dello scotch di carta quasi finito, una vecchia rivista enigmistica in una lingua che non conosco e infine del fil di ferro ricoperto, di quello che si usa per chiudere i sacchetti del congelatore. C’è anche una vecchia borsa, una specie di zaino con una cinghia sola che puzza di bitume ma con la cerniera ancora buona. Voglio portare con me anche l’unico cuscino: puzza di muffa e c’è una grossa macchia gialla su uno dei lati, ma dal momento che non ho idea di dove troverò da dormire non vorrei rimpiangerlo. Sono a pezzi, mi sento così debole che la testa mi gira. Dovrei stendermi ma ormai provo autentico schifo per quel materasso. Dovrei mangiare. Il mio stomaco sembra pieno di liquami.
Ma non c’è cibo né acqua qui dentro. Le gambe fremono, benché quasi si sciolgano per la fatica. Vorrei avere un piano, o almeno un’idea qualsiasi che abbia il coraggio di immaginare qualcosa fuori di qui, ma l’unica cosa che so è che se voglio continuare a vivere non ci sono altre uscite oltre quella porta da cui sono tornato - e questo ora mi sembra essere stato un errore gravissimo -, e che probabilmente quei due mentecatti stanno ancora lì, aspettando la mia prossima mossa, forse anche l’ultima. Dove saranno finiti? Magari si sono annoiati. La noia è il sentimento più diffuso, avrà contagiato anche loro. Sono umani, in fondo. È curioso come all’interno della roulotte non arrivi quasi nessun rumore. Mi accosto alla porta. Se faccio aderire l’orecchio alla lamiera gelida sento qualcosa di simile al muggito rauco delle conchiglie, un canto esoterico e indecifrabile, e probabilmente anche del tutto privo di senso. Mi faccio forza e mi decido a uscire, ripetendomi che non ho altra scelta. Ma per quanta forza ci metta la porta non va, neppure a spallate. Infuriato mi ricordo degli oblò. Mi affaccio, e quello che vedo - o meglio non vedo - è terrificante: è notte e sono in mare aperto, imprigionato in questa gelida tomba di lamiera che galleggia per non più di metà.
Ma non c’è cibo né acqua qui dentro. Le gambe fremono, benché quasi si sciolgano per la fatica. Vorrei avere un piano, o almeno un’idea qualsiasi che abbia il coraggio di immaginare qualcosa fuori di qui, ma l’unica cosa che so è che se voglio continuare a vivere non ci sono altre uscite oltre quella porta da cui sono tornato - e questo ora mi sembra essere stato un errore gravissimo -, e che probabilmente quei due mentecatti stanno ancora lì, aspettando la mia prossima mossa, forse anche l’ultima. Dove saranno finiti? Magari si sono annoiati. La noia è il sentimento più diffuso, avrà contagiato anche loro. Sono umani, in fondo. È curioso come all’interno della roulotte non arrivi quasi nessun rumore. Mi accosto alla porta. Se faccio aderire l’orecchio alla lamiera gelida sento qualcosa di simile al muggito rauco delle conchiglie, un canto esoterico e indecifrabile, e probabilmente anche del tutto privo di senso. Mi faccio forza e mi decido a uscire, ripetendomi che non ho altra scelta. Ma per quanta forza ci metta la porta non va, neppure a spallate. Infuriato mi ricordo degli oblò. Mi affaccio, e quello che vedo - o meglio non vedo - è terrificante: è notte e sono in mare aperto, imprigionato in questa gelida tomba di lamiera che galleggia per non più di metà.
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