lunedì 12 dicembre 2011

Loading - episodio 6. Lasciare andare, lasciarsi andare

Peggio per lui. La distanza siderale da quello che ero mi fa quasi ridere. Sotto le dita che rovistano senza l’ausilio degli occhi sento quasi subito quello che mi serve. Devo acciuffarlo, prima. Tramutarmi in gatto. Ero quasi vegano, non mangiavo carne terrestre: pescetariano per la precisione. E ora, invece. Ma se non ho neppure fame, perché dovrei? Perché è un intruso, anzitutto, di topi in gabbia uno è più che sufficiente. Trema, poverino, trema tutto. E poi io ho bisogno di proteine. Coi chiodi arrugginiti gli pianterò quelle stupide zampette e sarà il cristo della sua specie. Mi dovrebbe ringraziare. Mentre l’animella che ancora gli fluttua vicino la coda esalerà io ingoierò il suo corpo, pezzo a pezzo, senza neppure scuoiarlo. Mi illumino quando concepisco come procedere. Voglio che abbia le mie stesse cicatrici, che riporti anche lui sulla pancia un ferro di cavallo rovesciato. Che si dimeni, che si dimeni pure. Eccolo, è in un angolo. Ho sfasciato mezza roulotte per costringerlo dove è adesso. Se avesse delle spalle sarebbe spalle al muro. Ma tu, topolino, non ce le hai le spalle! Hai una schiena pelosa e sudicia, che tra un poco mi solleticherà le gengive. Ormai è questione di momenti, devo solo calarmi sul suo corpicino fremente, schiacciarlo nel palmo e succhiarlo ancora caldo, come fosse un uovo. Ma il farabutto è ancora veloce, ha ancora presenza di spirito. Salta, sguscia, non so come abbia fatto ma è già altrove, a sinistra, dietro. È un gioco, un divertentissimo gioco, divellere una delle mille antine di questa merda di casa galleggiante e lasciarmi andare, sentire le braccia che mi fanno male e diventano il cuore pulsante del mio vigore. Colpisco, alla cieca, senza neppure curarmi se il ridicolo mammifero è sotto i miei colpi o no, frantumo, produco un boato continuo che mi investe benefico e privo di qualunque ipocrisia. Sto generando il caos e non riesco a fermarmi. Ma ucciderlo così… Provo a rallentare, a togliere linfa al gusto, comincio a ripetermi, come posso, una parola alla volta, che è barbaro e inutile, che se proseguo procurerò delle falle alla lamiera, finiremo giù entrambi. 
Un’onda colossale ha appena investito il guscio, che è salito come sulle montagne russe. Io ho sbattuto la testa, ho lasciato andare la mia arma. Poi ancora due, tre onde ma meno elevate. So cosa significa. Riesco a rimettermi in piedi, anche se sono tutto dolorante. Il pensiero che scandisco è: Voglio godermela tutta, non voglio restare per terra. Nel giro di qualche secondo una luce azzurrina entra nel mio loculo, forte e indiscreta, sciogliendo le sagome e i colori che avevo percepito finora, e che mi ero rassegnato a considerare il mio ultimo carnevale. Il topo ne ha approfittato per svignarsela. Sono immobile, rigido sulle gambe come se sotto i piedi ci fosse un enorme surf, e da me dipendesse il mio stesso galleggiamento. L’onda si è smorzata, ma cominciano delle piccole vibrazioni continue. Anche questo so che cosa significa. La luce va e viene, come l’occhio di bue su una comparsa, mentre questa specie di barcone si mette a oscillare, a beccheggiare, a rollare. Finalmente il segnale che aspettavo: una lunga, profonda sirena di nave, come il sospiro di una gigantesca balenottera inquieta. Mi decido a lasciare la mia posizione e sporgermi verso uno dei due oblò, graffiati tanto da essere diventati opalescenti. Ormai ne sono certo, spetta a me alzare un braccio, fare un segno qualsiasi. 

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