Non mi ci vedo a morire così. Adesso che so come stanno le cose avverto la roulotte oscillare, come farebbe un qualunque barcone di lamiera. Non era il mio stomaco, né la testa a fare capricci. Per fortuna non c’è vento, sembra che tutto sia sospeso. Non ho visto stelle, ma non ho alcuna voglia di guardare di nuovo. L’unica lampadina, penzolante poco sopra il lavello, emette una luce da frigorifero, eppure riesco a trovarla di conforto. Non ho alcuna idea di dove si trovi la batteria e per quanto tempo durerà ancora. Penso solo che se ci spegneremo assieme non sarà tanto terribile. Avrei dovuto assecondarla. La barbie, avrei dovuto farmi sedurre, o sedurla io se era il caso, è così che si fa con gli scemi. Assecondarli e spremerli, e a quest’ora probabilmente mi troverei su un materasso ad acqua, con un sapore di plastica in bocca e un sorriso beota e incontrollabile che mi sale dalla radice del pene. È strano che non provi né fame né sete, né alcun altro stimolo. Da stamattina non ho toccato neppure un sorso d’acqua, però. Che mi abbiano manipolato qualcosa, a livello nervoso, magari come quelli che non hanno il senso dell’olfatto, o del tatto, e possono inalare un veleno per sbaglio o ustionarsi senza accorgersene in tempo. Potrebbero avermi reciso i nervi della fame. Il vago, per esempio, o qualcosa del genere. Sono seduto, la testa mi è scivolata tra le mani, e tengo il mio sguardo fisso sul punto in cui pavimento e parete si incontrano: questa roulotte è sudicia. Anch’io, del resto, lo sono. Emano un odore dolciastro, che a momenti cerco più morbosamente e inalo con un’unica narice. Mi sto convincendo che ci sia anche un fondo di disinfettante, o anestetico, non so, e che assomiglia a quegli ospiti pericolosi, che ogni tanto si è costretti a invitare. Uno di quelli che conosci poco, che esercitano uno strano fascino e potrebbero sfasciarti la casa da un momento all’altro o ucciderti il cane o peggio, violentare te e la tua donna. La cicatrice è grande quasi quanto un pugno, a ferro di cavallo rovesciato, come cioè non si dovrebbe mai mettere: mi hanno cucito addosso un segno della scalogna. Ho già provato a passarmici un dito, sopra, ma non ci sono riuscito. Adesso mi sento più invogliato a farlo. Morire senza essermi tolto almeno questo sfizio? Appena il polpastrello dell’indice destro sfiora l’inizio della cicatrice, che ora mi sembra grande come la cunetta smossa da un roditore, ritraggo istintivamente la pancia, spaventato. Un formicolio mi arriva fino ai talloni per protestare che non è il momento. Ma io aspetto, ho deciso di farlo e lo farò. È il mio corpo, ho ogni diritto. Più lentamente, con un’attenzione che mi sorprende e mi aliena dalla mia stessa mano, riesco a fare in modo che quella creatura sfregiata e oltraggiata che ha trovato riparo poco sotto il mio sterno si lasci avvicinare. La bestiola ha qualche piccolo sussulto, poco ci manca che squittisca. Mi faccio anch’io più coraggio, e dolcemente riprendo a sfiorarla, sentendo le irregolarità adesso come si trattasse di increspature, avvallamenti, strapiombi e io fossi un gigante pronto ad accudire e proteggere queste terre abitate da brava gente. Sento uno squittio per davvero. Mi volto: c’è un piccolo topo bianco dagli occhi rossastri che ha deciso proprio adesso di venire allo scoperto.
Nessun commento:
Posta un commento