venerdì 23 dicembre 2011

Loading - episodio 9. Discesa

Non provo sonno, anche se dovrei ragionevolmente provarlo. Ma forse è stata l’emozione, è l’adrenalina che ancora non smaltisco, fino a un momento fa ero in balìa del mare e del suo nero, adesso tutto è cambiato, è ricominciato. Non me ne sono reso conto, si sa in casi come questi come funziona, tra un minuto avrò il crollo. Ma la verità è che è come se non fosse successo niente, e come se non aspettassi niente. Non sono veramente scosso, si direbbe che non sia passata attraverso il mio corpo nessuna emozione: ho compiuto dei gesti, prevedibili, e poi, trovata questa ringhiera mi ci sono avvinghiato come farebbe un animale cui si è guastato qualche meccanismo istintivo e non sa più niente del branco, degli istinti, della tana. Non sono neppure annoiato. Sono molti minuti che dico di andare sotto coperta. Ma perché dovrei? La vocina è sempre più flebile, convince sempre meno, evapora quasi tutta prima di arrivare alle mie orecchie. Intanto però mollo la presa, e ritiro le mani facendo una certa fatica. I palmi sono piagati, non sento nulla però, sono le mani bianchicce e segnate da lunghe fessure infiammate di un altro, di qualcuno che non mi interessa neppure conoscere. Potrebbero essere di un manichino. Se non avessi visto quei segni ripugnanti, che sottolineano come pieghe di un tessuto bruciato le basi delle dita, se non le avessi viste per caso, con la parte bianca dell’occhio, non avrei saputo in che condizione si trovano le mie mani. Ho bisogno di luce, adesso, devo controllare. 
Così decido di andare sottocoperta. Ho cercato una via diversa dalla pertica, una scala che pure deve esserci, almeno per risalire, ma non l’ho trovata. Nel brevissimo giro di perlustrazione sul ponte ho trovato una porta, forse blu o verde, con una chiusura stagna da sommergibile. Deve essere quello l’accesso alla scaletta, non ho dubbi, ma non mi sono azzardato a toccare. Intanto però i miei piedi hanno compiuto quasi i passi di un gradino, poi di un altro, così, da fermo. Ho visto un cartello sopra la porta, privo di parole ma il disegno stilizzato è molto eloquente: due fauci di uno squalo che emergono spalancate sopra due onde parallele, e un omino che ci precipita dentro, proprio in bocca al pesce affamato. All’inizio mi è sembrato qualcosa di spiritoso e ho sentito gli angoli della bocca arricciarsi istintivamente. Poi mi è venuto un dubbio e ho guardato in direzione dell’unica luce che si vede, che è stata dietro la mia testa per tutto questo tempo, e che ora mi passa da un lato all’altro della fronte a seconda di come mi muovo, una cabina a prua con le pareti in vetro cui si può accedere solo dall’interno e che emana un bagliore desolato. Se c’è qualcuno che guida la nave è immobile, seduto da ore. Mi sarei accorto anche della più piccola ombra, del minimo movimento. Il rumore dell’acqua che attraversiamo senza fretta assomiglia al fruscio di una seta pesante, uno strascico che qualcuno dietro di noi continua a tirare. Noi: io e il vecchio? E basta? Magari c’è un sistema automatico. Mi trovo già sulla pertica, avvinghiato come una scimmia inesperta di questo genere di alberi. Basterà allentare un poco la presa e sbucherò anch’io di sotto.

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