venerdì 2 dicembre 2011

Loading - episodio 3. Souvenir di casa

Non sono in vena di filosofia, o di insegnamenti di vita. Non m’importa se quello che dice può avere una parvenza di intelligenza o profondità. A me sembra una specie di scocciatore guardone, calvo e grasso e che probabilmente muore di invidia perché chissà da quanto tempo ha messo gli occhi addosso su quella mezza matta mezza nuda. A questo punto non ho alternative. Il mare non è mai stata una via d’uscita concreta. La spiaggia sembra non finire mai ed è letteralmente ricoperta da leoni marini dalle sembianze un po’ più umane. Il vecchio calvo comincia a leccarsi le labbra e la pazza sembra avere finito le pile: sta ferma, mi guarda, con le orbite rinsecchite. Ora che sono più vicino posso vederla meglio. La faccia è lievemente segnata da butterature, le palpebre sono enormemente gonfie, e quasi si ingoiano gli occhi. La frangetta nera è stata disegnata apposta per correggere le irregolarità del viso. La pelle, sulla fronte, le guance e il mento, è molto lucida, ci si potrebbe intingere qualcosa. Ho vie di fuga? Girando la testa da un lato all’altro sento il collo rigido e teso, ho dolori anche lì, mi hanno conciato proprio bene. La roulotte è ancora dove l’ho lasciata, con la porta sgangherata semichiusa. È bianca a fasce marroni, ci sono diversi punti di ruggine. Da fuori si vedono delle assurde tendine a quadretti, dello stesso colore della sabbia. Delle tende spensierate. Sono spuntati dei cespugli, intanto. E dietro, dietro questa specie di uovo di lamiera abbandonato, qualcuno ha tracciato un viottolo. Da quella parte c’è meno gente, e quella che c’è parla tra loro, tutta presa dalle conversazioni. Banchettano come antichi romani, distesi su un fianco sopra i loro asciugamani sporchi. Nessuno si accalora, il tono è sommesso, nessuno grida, nessuno indica, ma tutti tengono gli sguardi fissi sull’interlocutore. La ragazza in pelliccia ha perso ogni iniziativa, sento che tra poco, se io non le darò retta, tornerà da dove è venuta. L’uomo calvo voleva lei, adesso mi è chiaro. Sono stanco. Un’ora, un’ora soltanto. Mi riposerò e poi si vedrà. Ho bisogno di ricominciare dal mio zero più recente.

Non credevo, ma è come tornare a casa. La sensazione di familiarità mi insinua un dubbio: mi chiedo cioè quanto tempo davvero abbia passato qui dentro. Ho mangiato, dormito, fatto sesso in questa baracca a rimorchio? Riconosco il lavello fatiscente, i sedili di finta pelle squarciati in più punti, il materasso nudo sul quale mi sono risvegliato in un bagno di sudore. Prima, prima di questo, dove abitavo? È un attimo, un attimo solo. Voltandomi per cercare qualcosa di commestibile da ingoiare mi è sembrato di vedere una piccola figura, come di un bambino, intento a scrivere o disegnare su quella ribaltina in formica che dovrebbe fungere da scrivania. Mi assale un’enorme tristezza, la sento acchiapparmi le costole e spingere verso la parta alta del petto, come se stesse per esondare. Non c’è nessun bambino evidentemente, ma basta questo a ricordarmi che molti anni fa, quando avevo sei, sette anni, io vivevo con mio padre in una roulotte come questa. Ce ne andavamo in giro, noi due, mentre una madre e una casa vera erano soltanto una promessa, rinnovata con quella rozza premura di cui era capace ogni volta che quel misto velenoso di noia e solitudine mi faceva affiorare le lacrime e lui non sapeva come ricacciarle dentro.

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